TERRORISMO, GUERRA,
POLITICA E MARKETING
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Sono convinto
che poche siano le cose "sicure" attorno a questa guerra che minaccia
di essere infinita, che è nata (anche) come reazione all'attentato
dell'11 settembre 2001 per impedire che qualcosa di analogo e di più
grave ancora si verificasse e che è nota come "seconda guerra
irachena". Ed è su queste poche cose certe che andrebbe fondato ogni e
qualsiasi ragionamento sugli eventi in corso, ma più ancora su quelli
futuri. E' il mio tentativo, che condurrò servendomi degli strumenti
professionali che mi sono propri. Gli strumenti di marketing, primo tra
tutti quella "pianificazione" di cui tutti, soprattutto quanti di
marketing poco o nulla sapendo, favoleggiano nelle imprese e, quasi
peggior cosa, nelle Università e nei Master post universitari. Senza
per questo escludere le istituzioni pubbliche di qualsivoglia livello.
E intanto:
1. La guerra è in corso. E' un fatto
difficilmente contestabile, oggetto di analisi e di commento da parte
di tutti coloro che in qualche modo hanno accesso ai mezzi di
comunicazione, indipendentemente dalla preparazione, dalla cultura,
dalla professionalità di ciascuno. In particolare, poiché alla guerra
si guarda come ad un "risultato politico" o ad un "risultato della
politica", sono coloro che passano o si fanno passare per "politici"
che, in pratica, sembra abbiano il monopolio della comunicazione in
merito, talvolta affiancati da giornalisti chissà perché promossi al
rango di esperti. E naturalmente da una pletora di sociologi. Potenza
della immagine! Comunque, nessuno delle centinaia di partecipanti ai talk show
televisivi e nessuno di coloro che hanno riempito e riempiono le colonne
dei nostri giornali e i tempi delle trasmissioni radio ha mai
utilizzato, a proposito della guerra, il termine "prodotto". Peccato,
perché, se lo avessero fatto e ne avessero tratte le conseguenze,
almeno una parte delle analisi svolte si sarebbe dimostrata più
credibile e, forse, sarebbe scaturita qualche proposta affidabile.
Soprattutto se ad esaminare la situazione fosse stato chiamato qualche
professionista della gestione degli scambi: sì, proprio qualcuno di
quegli "uomini di marketing" che sono, in Italia almeno, numerosi e
invasivi come le erbe infestanti ma che, in alcuni casi, ancora troppo
rari, ma esistenti, esercitano una professione della quale sanno anche
utilizzare correttamente i mezzi. E allora, forse, si sarebbe non
soltanto preso atto che la guerra è in corso, ma anche che essa è un
prodotto dalle caratteristiche particolari, oggetto di uno scambio a
sua volta particolare. E dunque un prodotto ed uno scambio che vanno
gestiti secondo criteri propri, in qualche caso assolutamente
peculiari. E si badi bene: ragionare in termini di "guerra in corso"
non è esattamente la stessa cosa del farlo in termini di "guerriglia"
e/o di "resistenza" a guerra finita. E' diverso trovarsi nella
posizione del vincitore conclamato e riconosciuto - che non vuol
necessariamente dire accettato- dall'essere, invece, costantemente in
prima linea e lungo direttrici, per di più, sconosciute anche perché
invisibili e in buona parte imprevedibili. Se di guerra si parla,
ebbene: sarà il caso di tentare di esplorarne le caratteristiche anche
da un punto di vista non usuale.
1.1. Il prodotto strumentale "guerra". Coi
tempi che corrono, è possibile scoprire una vena di sottile ironia
nella accezione comune di "guerra", quella riportata dallo Zingarelli
di "Situazione giuridica esistente tra Stati in cui ciascuno di essi
può esercitare violenza contro il territorio, le persone e i beni
dell'altro o degli altri Stati con l'osservanza delle norme di diritto
internazionale". E' una buona definizione, assolutamente
convenzionale e fondata su alcuni principi certamente condivisibili
quali il sistema giuridico che ne è o ne dovrebbe essere alla base e le
regole del gioco, a loro volta fissate da norme giuridiche dotate di
sanzione. Come condivisibile è lo sforzo, visto che la guerra in sé
pare assolutamente inevitabile, di regolamentarne almeno gli aspetti
"meno umani", più primitivi. Il problema sta, forse, nel fatto che non
è difficile, oggi e per questa guerra, dubitare della forza cogente
della normazione di guerra, del rispetto degli accordi e delle leggi
internazionali e di quanto altro fa della guerra se non un
comportamento civile certamente un fatto giuridico. Ma, come sempre, si tratta di accettare o meno una definizione convenzionale. E questa mi sembra più che accettabile.
Ciò detto, però, c'è da fare un passo avanti. E non è senza
rilievo riscoprire e mettere in evidenza come la guerra sia
innanzitutto un prodotto e, chiaramente, un prodotto destinato ad uno
scambio; poi, che si tratta di un prodotto complesso e, infine, di una
prodotto strumentale. E nella categoria dei prodotti strumentali, alla
guerra può guardarsi come ad un prodotto la cui strumentalità è di
primo livello, nel senso che "produce altri prodotti a loro volta
strumentali". Significa che la sua funzione è quella di produrre - da
sola oppure insieme ad altri prodotti strumentali- ulteriori diversi
prodotti destinati, ciascuno, a soddisfare bisogni individuati e,
ciascuno, a sua volta destinato ad essere oggetto di scambio. E dunque
la guerra come strumento va inserita in una vera e propria
pianificazione di marketing la cui "causa" è stata individuata e
descritta e al raggiungimento di questa lo strumento guerra è coerente.
E così come in una qualsiasi "fabbrica" i macchinari, i materiali, le
fonti di energia, le risorse occorrenti, il personale sono disposti in
ordine secondo una "pianificazione della produzione" attenta e precisa,
anche per lo strumento chiamato guerra deve essere pianificato un uso
coerente agli altri strumenti e, assieme a questi, all'ottenimento del
risultato finale. Dal che una conseguenza immediata: lo strumento
guerra va utilizzato in costanza di chiarezza sugli obiettivi finali.
Significa: io so a che cosa serve la guerra, cosa la guerra deve
concorrere a produrre, entro quale tempo la produzione deve essere
ultimata, con quali caratteristiche ed a quali costi. Forse una
situazione particolare deriva dalla non trascurabile circostanza che ai
fini del destinatario ultimo - quindi, di colui che dovrà utilizzare i
prodotti che la guerra ha contribuito a fabbricare - la vera rilevanza
la possiede il prodotto finale, appunto. E' questo che deve soddisfare
i bisogni "del mercato" ed è questo che deve essere acquistato. Dal che
una immediata conseguenza: le caratteristiche del prodotto strumentale
devono essere tali da concorrere a mettere sul mercato quei prodotti
che il pubblico di riferimento si attende. E il pubblico di riferimento
è alla ricerca della migliore soddisfazione possibile dei bisogni di
cui è portatore, che ha in qualche modo avvertito e che deciderà se
soddisfare o meno compiendo l'atto d'acquisto necessario per disporre
del prodotto che gli viene offerto. Sapere a cosa serve la guerra
significa, dunque, anche sapere cosa deve produrre e perché.
1.2. La guerra va "venduta". E, anche,
sapere chi sono i "clienti" - gli acquirenti- del prodotto strumentale
guerra. Significa che ho individuato chi sono quei "produttori di altri
prodotti" che possono e debbono utilizzare la guerra quale strumento
per la produzione. Qui il problema nasce, forse, perché di solito
accade che la guerra sia "venduta" quasi soltanto alle popolazioni
"attrici", ai singoli componenti lo Stato o il gruppo sociale che si
attiva. In altre parole, chi decide di far ricorso alla guerra si
preoccupa, in genere, di "farla accettare" alla propria gente,
vendendogliela con le argomentazioni più diverse, che vanno dalla
affermazione della propria superiorità (di razza, di censo, di
intelligenza) alla necessità oggettiva di ampliare il proprio
territorio, all'opportunità di disporre di risorse altrimenti di
difficile reperimento, alla volontà di Dio. I produttori di guerra più
illuminati si preoccupano di argomentare anche nei confronti delle
popolazioni contro le quali la guerra viene mossa. E così si cerca di
convincere la nazione o lo stato aggredito che si tratta di una
attività liberatrice da tirannie e miserie e cattiverie di ogni genere;
che viene messo in atto uno strumento apportatore di civiltà, di
giustizia e di cultura superiori; che Dio vuole che i rapporti tra i
popoli abbiano un assetto diverso dall'attuale e che diversa sia la
condizione umana. Uno dei problemi che vengono in evidenza in questa fase di
"vendita della guerra" e di "identificazione degli acquirenti
utilizzatori" è quello costituito dall'essere - la struttura
produttrice e distributrice della guerra - più simile ad una impresa product oriented che ad una marketing oriented.
Avviene così che il "prodotto guerra" viene strutturato in tutte le sue
componenti a prescindere dai bisogni e dagli interessi dell'altra
parte; la sua costruzione è determinata sulla base quasi esclusivamente
degli atteggiamenti, dei bisogni, delle motivazioni, degli interessi
del produttore. Questo comporta difficoltà di non poco conto quando si
tratta di "spingere all'atto di acquisto", di fare accettare il
prodotto in modo che questo possa dar vita ai prodotti per i quali è
stato predisposto. Che è esattamente quanto sembra sia accaduto e stia
accadendo per il popolo iracheno e per il medio oriente in generale: le
argomentazioni di vendita utilizzate dagli americani si dimostrano in
buona parte inefficaci e comunque deboli. Forse, questo è il risultato
di analisi sui reali bisogni e sui desideri delle popolazioni
interessate condotta in modo non approfondito (il dubbio è che non sia
stata condotta affatto, che si siano dati per scontati valori e
desideri e comportamenti tutti da accertare) e non si sono verificati
preventivamente gli effetti dei prodotti generati dalla guerra stessa,
e neppure l'atteggiamento dei fruitori nei loro confronti. In buona
sostanza, non sono stati accertati i bisogni e le motivazioni che
avrebbero dovuto spingere gli iracheni ad accogliere i militari
americani come portatori di strumenti di produzione di utilità. Tutto
questo - se si aggiunge la circostanza che anche verso i potenziali
co-produttori di guerra sembra esserci stata una carenza di
approfondimento dei bisogni, delle motivazioni e degli interessi di cui
erano e sono portatori - ha portato non soltanto ad una grande
difficoltà "di vendita" ma anche ad una reazione che ha colto gli
americani e gli inglesi quasi di sprovvista e che, sul piano pratico,
al momento in cui scrivo ha provocato quattrocento quattordici vittime
tra i soldati americani, attentati vari e un numero non a me noto di
vittime tra i civili. Ed alla saldatura tra le organizzazioni
terroristiche in tutto il mondo ed a quello che sostanzialmente si
rivela come un ampliamento del fronte. Con buona pace delle
"argomentazioni di vendita" comunicate con tutti i mezzi prima,
durante e dopo l'attacco.
1.3. La guerra va comunicata Quelle
argomentazioni di vendita che i responsabili della gestione ritengono
più efficaci vengono a loro volta prodotte e distribuite (comunicate,
rese apprensibili) nei modi e attraverso i mezzi reputati più e meglio
adatti a convincere. E questa attività di comunicazione quasi sempre è
pianificata ed attuata con estrema attenzione, anche distinguendo tra
le diverse categorie che la compongono. E si ricorre dunque a programmi
di formazione di base; a corsi di specializzazione; a sedute di
aggiornamento; a forme di animazione e di promozione..E ad attività di
vendita di prodotti a questa in qualche modo collegati. Il tutto,
ovviamente, al fine di "far accettare" lo strumento guerra, sempre
mettendone in ombra gli aspetti drammatici e, sempre, esaltandone
quelli ludici o comunque premianti. Fino a creare prodotti a mio parere
assolutamente aberranti. La "guerra santa" o la "guerra di religione"
ne è un esempio. Ma non lo sono di meno quei prodotti che scaturiscono
dalla comunicazione e dalla formazione all'eroismo, al sacrificio della
vita per la causa, o dalla certezza di guadagnare un premio valido per
l'eternità, sia esso costituito dalla gloria oppure da un numero a me
ignoto di vergini a disposizione in una vita che si svolge in un aldilà
dalla collocazione non esattamente individuabile, ma dall'esistenza
certa. E dal momento che le argomentazioni di vendita sono un prodotto,
occorre identificare la natura del bisogno che sta alla base, le
motivazioni che lo strutturano e strutturano la decisione di acquisto,
gli interessi che ne scaturiscono affinché si possano elaborare
argomentazioni convincenti e, dunque, efficaci. E occorre anche non
dimenticare che le argomentazioni di vendita, così come le
argomentazioni pubblicitarie, devono trovare il massimo possibile del
riscontro nella natura del prodotto oggetto della comunicazione. E
forse, sarebbe bene anche ricordare che gli appelli pubblicitari non
sono messaggi assolutamente diversi dalle argomentazioni di vendita. Al
contrario, ne fanno parte integrante e sono chiamati a svolgere effetti
sinergici con queste. La vera differenza sta nel mezzo usato e nella
diversità di linguaggio che ne deriva. 1.4. Lo scambio va controllato La guerra
è in corso e, dal punto di vista di un qualsiasi uomo di marketing
gestore di un qualsiasi scambio in un qualsiasi mercato per un
qualsivoglia prodotto, significa che "il prodotto è sul mercato", che è
comunque oggetto di uno scambio, che questo scambio si svolge con
modalità che sono sotto gli occhi di tutti e i suoi effetti sono
attuali. Il problema è sempre quello di controllare che quanto avviene
accada in coerenza agli obiettivi della pianificazione di gestione. Gli
effetti di una qualsiasi attività di scambio hanno sostanzialmente due
possibilità: essere quelli previsti oppure non esserlo in tutto o in
parte. Ovviamente nell'ipotesi che la pianificazione di gestione sia
stata corretta, se gli effetti sono quelli voluti, nulla quaestio.
Se, invece, in tutto o in parte se ne discostano, allora significa che
bisogna correre ai ripari, che qualcosa non sta andando per il verso
giusto, che occorre riportare lo scambio in atto entro i confini dello
scambio previsto e pianificato. E nel caso in argomento a me pare che
sia assolutamente imprescindibile un'attenta attività di controllo
della gestione dello scambio in atto e l'identificazione e l'attuazione
delle azioni opportune per ottenere gli effetti previsti, voluti e
programmati quando il prodotto è stato "ideato". Questo significa che la prima cosa da fare è verificare se il
piano di gestione (il piano di marketing) è stato correttamente
elaborato a suo tempo in tutte le sue componenti. E, in particolare, se
siano stati correttamente disegnati lo scenario attuale (quello, per
intenderci che descrive la situazione di partenza) e lo scenario
finale: quello che descrive la situazione prevista e in vista della
quale tutto è stato predisposto e messo in atto. Che sono, poi,
scenario attuale e scenario finale, i punti estremi della
pianificazione la quale, partendo da una realtà conosciuta e da una
ipotesi confidente, ha costruito un prodotto per uno scambio
profittevole in un mondo e in un momento comunque diversi.
2. Guerra e pianificazione di marketing Ho
affermato che avrei cercato di analizzare per quanto possibile la
guerra in Iraq utilizzando gli strumenti che meglio conosco. E dunque,
quelli relativi alla gestione degli scambi. E mi sembra che tra le
poche cose certe di questa vicenda una sia incontestabile: la guerra è
oggetto di pianificazione, di programmazione e dunque di
identificazione degli obiettivi, di reperimento e di ordinamento delle
risorse, di indicazione ed uso degli strumenti e dei mezzi necessari
per il raggiungimento degli obiettivi, di predisposizione dei sistemi
di controllo delle azioni. La guerra è oggetto di un vero e proprio
piano di marketing. E l'oggetto del piano di marketing non è costituito
solo dalle attività di comunicazione (pubblicitaria) e da quelle per
qualche verso promozionali, oltre che di ricerca e di analisi dei
mercati. Così la pensavano i "grandi vecchi", i quali molto hanno dato
alla cultura di marketing ma che sono stati ampiamente superati, come
accade in tutte le discipline. E così la pensavano e la pensano gli
italiani che, a tutti i livelli, dicono di "fare marketing". In questo
caso, sopra tutto perché si sono limitati a copiare, senza neppure
preoccuparsi di capirli, gli assunti americani. L'oggetto della
attività e quindi della pianificazione di marketing è costituito da
tutto lo scambio e, quando si abbia a riferimento il prodotto che dello
scambio é oggetto, da tutti gli elementi essenziali che un prodotto
destinato allo scambio deve avere. La qualifica di "prodotto" in senso
fisico, materiale, concreto e, per i servizi, la immaterialità, e la
capacità di soddisfazione dei bisogni di riferimento; l'essere
conosciuto quale prodotto in grado di soddisfare quel bisogno, e quindi
di realizzare utilità; l'essere apprensibile, e quindi in grado di
entrare nella materiale disponibilità del portatore del bisogno sono le
tre condizioni di base, essenziali e sufficienti, perché di prodotto
destinato allo scambio possa parlarsi. Ad esse corrispondono i mondi
della produzione, della comunicazione e della distribuzione, i quali
tutti e per intero entrano a far parte di quella pianificazione di
marketing che null'altro è se non la pianificazione della gestione
dello scambio di riferimento. E non esiste piano di marketing che non
prenda le mosse da una approfondita conoscenza della situazione attuale.
2.1. Lo scenario attuale e quello futuro E' forse opportuna una premessa. La
pianificazione di gestione (di marketing) si fonda su alcuni, pochi
principi di una chiarezza esemplare. Il disegno dello scenario attuale
è tra questi. E ne è il primo almeno in ordine temporale, ma anche in
ordine logico, perché su di esso si fonda o dovrebbe basarsi ogni e
qualsiasi decisione in ordine al prodotto ed allo scambio di cui questo
è oggetto o, se si preferisce, in ordine allo scambio che si intende
attuare ed al prodotto meglio adatto ad esserne oggetto. E spero sia
chiaro che non è esattamente la stessa cosa. Nel primo caso,
protagonista è il prodotto e dunque è più probabile che nel prodotto in
quanto risultato di attività produttiva e oggetto di scambio si ritrovi
la maggior parte dei vincoli e delle opportunità. Nel secondo caso è lo
scambio a disegnare opportunità e vincoli e quindi a determinare la
struttura stessa del prodotto che deve o dovrà esserne oggetto. E tutto
questo influisce, ovviamente, sulle decisioni di oggi e più ancora su
quelle di domani. E sui costi, anche. E la stessa cosa è a dirsi dello
scenario futuro, il cui disegno è a sua volta assolutamente necessario.
Perché ci dice "dove" ci troveremo ad operare; quali saranno le
caratteristiche del mercato e, dunque, che cosa dovremo fare e come. E
c'è un particolare non trascurabile: disegnare lo scenario futuro serve
anche a prevedere gli effetti delle nostre azioni attuali. E più
ambiziose e strutturate sono le azioni di oggi, più importante e
approfondita deve essere la previsione dei loro effetti in un mondo
futuro che per la gran parte si struttura in modo indipendentemente da
noi e dalle nostri azioni, ma che da questo è comunque in qualche modo
influenzato, modificato, adattato. Un'impresa che non riesce a
conoscere l'ambiente che dovrà accoglierla (o che lo conosce soltanto
approssimativamente) è un'impresa che non programma oppure che
programma male e solo parzialmente il proprio futuro; che non immagina
se stessa in quel futuro e che, dunque, nella migliore delle ipotesi
"subirà" il mercato. E la sua vita sarà a un tempo difficile e costosa.
E una cosa ancora: disegnare lo scenario attuale costituisce uno dei
metri di valutazione della attività di un qualsiasi responsabile di una
qualsiasi impresa. Ma anche di un qualsiasi impiegato ed operaio, ed
anche di qualsiasi ufficio, servizio, direzione indipendentemente dalla
natura privata o pubblica della struttura. Nella mia lunga vita di
dirigente di impresa (privata) e di consulente di gestione (anche di
strutture pubbliche) ho quasi sempre visto i responsabili dei sistemi
informativi e delle ricerche di marketing adeguarsi alle richieste del
"capo" e fare questo addirittura modificando le informazioni e i dati
provenienti dal mercato per trasformare un insuccesso o un trend
negativo in un successo o in un trend positivo. Il che, tra l'altro,
dovrebbe insegnare più di qualcosa anche in merito ai reali obiettivi
di un'azione. Ciò detto, a me sembra che quel "disegno dello scenario attuale"
che di ogni pianificazione di marketing è base e punto di partenza, nel
caso di questa guerra sia stato malamente attuato. Come accade
purtroppo spesso in molte imprese, lo "scenario attuale" sembra essere
stato disegnato più che per avere il quadro oggettivo di una
situazione, per compiacere l'Alto Dirigente di turno. E così, Saddam
Hussein - certamente un bieco dittatore; certamente uomo senza
scrupoli; certamente tutto meno che rispettoso dei diritti umani;
certamente satrapo folle; certamente. tutto quello che volete - è stato
anche presentato al mondo come il detentore e l'imminente utilizzatore
di armi terribili. E il suo Paese come ricettacolo di terroristi in
atto e potenziali. E dunque come una minaccia "attuale" da sventare
quanto prima. Pena, milioni di morti e il crollo di una civiltà. La
nostra. Con un piccolo particolare: che non era vero. Ma con una
caratteristica importante: si trattava di un'informazione capace quasi
da sola di coagulare attorno alla "guerra preventiva" un consenso
abbastanza vasto perché si potesse affermare che "il popolo" voleva che
l'Iraq fosse liberato da una dittatura che, oltre a minacciare il mondo
occidentale, umiliava la civiltà di un Paese che della civiltà è stato
culla. E i sacrifici che un intervento armato impone sarebbero stati
ampiamente ripagati in termini così di immagine come di sicurezza. E il
Capo di una Nazione che vuole la guerra per la propria sicurezza e per
una duratura pace futura non può non obbedire, non può non rispondere
alle aspettative di un popolo che lo ha eletto proprio per essere da
lui tutelato, difeso, migliorato, proiettato verso un luminoso futuro.
Un futuro migliore per tutti. Sopra tutto, nell'immediato, un futuro di
gloria per un Presidente che, forse, è costretto a mettere in prima
linea la difesa di interessi che più che alla Nazione sono riferibili
ad un gruppo di personaggi ben più limitato e più che basati su valori
universali, si fondano sul valore del petrolio e dei suoi derivati. E
sulla necessità di moltiplicare gli affari dei produttori di armi. E
sulle opportunità offerte da una ricostruzione che le bombe
intelligenti e i missili intelligenti e le altre armi intelligenti
hanno intelligentemente creato. E crearsi le opportunità e cogliere le
opportunità ravvisate sono comandamenti primi del codice di
comportamento degli imprenditori e delle imprese. E tutto questo la
dice lunga anche in termini di "comunicazione" e di "gestione dello
scambio avente per oggetto la comunicazione". Ma su questo tornerò, non
senza aver qui ricordato che un quadro errato della situazione attuale
probabilmente genera informazioni errate (e questo è accaduto), ma che
informazioni non corrette possono essere fabbricate e distribuite anche
in perfetta malafede. E anche questo è accaduto. Sempre per un futuro
migliore. Ma forse è da aggiungere che al momento in cui lo scenario
attuale doveva essere disegnato ci si è dimenticati di dare il giusto
valore alla nuova concezione della guerra. Non più un fenomeno triste,
doloroso, pesante, distruttivo ma in qualche modo soggetto a regole,
per quanto precarie. Un evento, invece, ormai senza alcuna regola, di
nessun tipo. E non è a dire che la cosa non potesse essere prevista.
L'attentato alle torri gemelle (ma non solo) è stato un segnale
preciso: pur di colpirvi e distruggervi, ogni mezzo è lecito, ogni
momento è opportuno. E tra le armi possibili, se voi avete le testate
nucleari e i missili e le bombe atomiche, noi disponiamo di eroi
disposti a sacrificare con certezza la propria vita, pur di colpirvi e
di contribuire alla vittoria finale. Un messaggio terribile con
questo in più: la consapevolezza che le armi atomiche non possono
essere utilizzate se non a costi altissimi e con effetti assolutamente
inimmaginabili per l'intero pianeta, fino al rischio della distruzione
totale. Il kamikaze, invece, uccide, distrugge, muore, ma garantisce la
sopravvivenza della propria gente, della parte per la quale combatte.
E sono, questi, alcuni degli elementi che distinguono anche quello
"scenario di oggi" che va accuratamente disegnato se vogliamo porre
riparo alle carenze che la pianificazione di gestione di questa guerra
ha palesato. Oggi la situazione sembra essere descritta almeno dai
punti che seguono, l'indicazione dei quali, ovviamente, non ha alcuna
pretesa di completezza ma la cui conoscenza a mio parere può portare ad
iniziare un processo di individuazione delle azioni di correzione alle
falle che quel piano di marketing di cui mi sto occupando ha
denunziato.
- La popolazione irachena ha dimostrato di non essere
particolarmente interessata al tipo di democrazia occidentale e ai
principi fondamentali della nostra cultura. Io non so in quale
misura nella realtà ci si aspettasse che il nostro tipo di democrazia e
la nostra visione del diritto potessero essere esportati ed accettati
da parte degli iracheni. So soltanto che qualcuno se lo aspettava e che
questo "portare la democrazia e la libertà dalla dittatura" ha
costituito una delle argomentazioni di vendita principali, utilizzate
sia verso gli americani a richiesta del consenso alla guerra, sia verso
gli irakeni, a garanzia dell'amicizia futura. E questo mi ha ricordato
anni lontani e gli sforzi fatti per esportare il panettone in un Paese
del nord Europa. La filosofia del non mai abbastanza lodato direttore
generale dell'epoca era che se quel popolo non mangiava il panettone
voleva dire che non sapeva cosa volesse dire mangiare. Che non era
certamente l'atteggiamento corretto per entrare in un mercato, ma "il
potere" la pensava così. E pensava anche qualcosa circa la sacralità
del panettone, ricetta immodificabile. Tutto giusto, solo che, al
tempo, mentre il panettone rimaneva tristemente sulla soglia, un'altra
"levata", questa volta monodose, si vendeva molto bene in un Paese
confinante solo perché si era riusciti a modificarne leggermente il
gusto. Ma forse è questo il momento per un'altra considerazione.
Questa: a noi occidentali sembra particolarmente piacevole e
culturalmente appagante affermare che "agli iracheni il nostro concetto
di democrazia è estraneo", come estraneo sarebbe quello di Stato di
diritto. Può darsi sia vero, ma non sarebbe fuori luogo farsi venire un
dubbio. Gli iracheni - e con loro tutti i popoli dalle caratteristiche
simili- sembrano conoscere perfettamente le caratteristiche
fondamentali della nostra cultura e della nostra pratica in merito allo
Stato, alle sue forme, ai governi, alla politica, ai diritti umani e a
quanto altro ci distingue. Tanto bene le conoscono, che le utilizzano
anche per difendere i propri diritti e per affermare i propri principi.
Ed anche per mantenere vive cellule di arruolamento di kamikaze e di
attentatori nei Paesi che arabi e mussulmani non sono e non si sognano
di essere e per reclutare adepti e per finanziare gruppi e iniziative.
Vuol dire che le nostre strutture sono utilizzate al meglio e dunque
conosciute a fondo. E allora, come si fa a sostenere che sono
"estranee" alla cultura di quelle popolazioni? Non sarebbe più facile e
più vero ritenere che, quanto meno, vengono utilizzate per scopi
particolari e sono mantenute lontane dalla cultura popolare perché
sull'ignoranza del popolo si basa una buona parte del potere degli
oligarchi? Che è anche questa un'affermazione discutibile, in piena
globalizzazione, ma è ciò non ostante possibile. Io posso solo
ricordare, a questo proposito, come noi italiani siamo andati nell'ex
Unione Sovietica convinti che i principi del nostro tipo di economia
fossero ignoti, che "i russi" nulla sapessero di mercato e che, di
conseguenza, la conquista economica da parte nostra sarebbe stata
facilissima. Ricordo gli sguardi di commiserazione che mi venivano
rivolti quando - forte della mia esperienza di primo italiano ad aver
tenuto a Mosca corsi di marketing - mettevo in guardia contro questa
facile e per me errata analisi, dal momento che tutti coloro che
avevano partecipato al mio corso avevano dimostrato di conoscere a
fondo, molto meglio di qualsiasi italiano, quei principi e quella
pratica.
- quella parte del popolo iracheno che si opponeva (si
oppone?) a Saddam ha dimostrato di considerare l'intervento occidentale
puramente strumentale ad un cambio di gruppo di potere, ma nulla di
più. Sembra ci si accorga solo oggi di una realtà tribale che
governa tutta la struttura del Paese e che da sempre determina la
conquista e la gestione del potere in Iraq. Se così è - se, cioè, la
cosa fu ignorata o sottovalutata al momento di decidere l'attacco a
Saddam Hussein - significa che lo scenario iniziale era stato disegnato
malamente, almeno per quanto riguarda la struttura sociale e le sue
motivazioni. Se, invece, così non è stato, significa che l'impatto
culturale, della tradizione, delle abitudini è stato sottovalutato. In
ogni caso, l'eventuale appoggio a Saddam, unitamente alle resistenze
alla presenza di truppe straniere nel Paese, non erano fatti da
sottovalutarsi, allora come adesso. E allo stato delle cose, contare
sull'appoggio della popolazione costituisce, a mio parere, una forma di
ottimismo che potrebbe rivelarsi pericolosa.
- Saddam Hussein ha dimostrato di essere in grado di
modificare radicalmente il modo di condurre la guerra, di saper
attendere, di poter contare su armi a sufficienza e sull'azione di
fedelissimi di cui si ignora il numero. A me pare che dallo
scenario di guerra previsto dalla coalizione fosse assente proprio la
possibilità che Saddam Hussein non soltanto riuscisse a dileguarsi ma,
anche, che scegliesse di continuare la guerra su di un terreno a lui
più favorevole. E sì che l'esempio di Ben Laden avrebbe dovuto fare
scuola! E poi c'è chi sostiene che la storia insegna qualcosa. Vuol
dire che, non ostante la costante attenzione a Saddam da parte degli
USA, le capacità del dittatore non erano conosciute a fondo. Vuol dire
che lo si è sottovalutato come capo di Stato e, peggior cosa!, come
stratega. Che per degli analisti e degli strateghi di professione non è
poco.
- quello che noi chiamiamo genericamente "terrorismo" ha
dimostrato di essere pronto a cogliere le opportunità offerte da un
maggior coordinamento delle azioni e dalle possibilità offerte da una
immagine di "terrorismo globale" in grado di intaccare profondamente le
sicurezze dell'occidente. Forse l'abitudine di guardare ai
terroristi "di casa" non ha aiutato gli analisti ad andare oltre i
confini ed a prefigurare un terrorismo che in qualche modo coordinasse
le azioni nei diversi Paesi, sopra tutto forte di una causa comune la
cui presenza in qualche modo potrebbe renderne l'azione meno odiosa. E
rafforzato, anche, da una nuova comunione di interessi con i gruppi di
Ben Laden i quali, avendo in fondo l'obiettivo di minare dalle
fondamenta il mondo occidentale, hanno tutto l'interesse a che i gruppi
terroristici dei singoli Paesi aumentino il numero e la pericolosità
delle proprie azioni.
- l'arrivo in Iraq di attentatori, kamikaze, gruppi
terroristici da tutti i paesi del medio oriente ha dimostrato che
l'eventuale intervento "culturale" va pianificato con metodologie e su
scala assolutamente diversi da quelle previste. La guerra in Iraq
- e, a ben guardare, anche quella afgana - si svolge lungo il
sottilissimo confine con la guerra di religione. Con qualche
probabilità, anche questa caratteristica non è stata analizzata con il
dovuto approfondimento. La "nazione araba" non sembra avere come valori
fondamentali la Patria, lo Stato, il proprio Paese. Non in misura
maggiore, quanto meno, di quello costituito dai valori tribali e da
quelli della religione. La cosa rende estremamente facile il passaggio
dal concetto di "guerra laica" a quello di guerra di religione o,
comunque, di guerra santa. E in questo ambito il sacrificio personale
diviene un accostarsi a Dio senza prezzo, una felicità del sacrificio,
la certezza del premio in una vita futura che senza dubbio sarà
enormemente migliore di quella attuale. Sopra tutto per coloro la cui
vita terrena è dominata dalla precarietà più miserevole.
- La questione palestinese è stata riportata al centro
dell'attenzione - peraltro mai abbandonato - con forza moltiplicata,
capace di coagulare più ancora di quanto non sia accaduto fino ad ora
gli interessi e le forze degli oppositori ad Israele. Gli
attentati alle due sinagoghe di Istanbul stanno a dimostrare come per
il mondo arabo la questione dei rapporti tra lo Stato di Israele e i
Palestinesi sia una questione assolutamente imprescindibile e
costituisca un'ottima ragione di lotta. Con tutti i mezzi. Si potrà
sostenere, a ragione, che non c'era alcun bisogno di questa ulteriore
prova: tutti al mondo sappiamo che finché la questione non sarà stata
risolta non avremo, nessuno, né pace né sicurezza. E avrebbero dovuto
saperlo anche gli analisti della situazione attuale al momento della
decisione della guerra in Iraq. E lo sapevano, solo che anche in questo
caso è possibile pensare che si sia verificata una sottovalutazione.
Oppure ( o anche) che interessi diversi abbiano sconsigliato una azione
decisa verso Israele perché aiutasse a spegnere il focolaio di guerra.
- l'immagine di Israele nel mondo sembra, a sua volta,
precipitare. Il sondaggio europeo che vede lo Stato di Israele in testa
tra gli Stati ritenuti pericolosi per la pace nel mondo dovrebbe fare
riflettere, indipendentemente dal modo con il quale la ricerca è stata
condotta e dalle opinioni in proposito. Forse il dare maggiore
attenzione alla differenza tra religione ebraica e Stato di Israele
avrebbe aiutato a trarre conclusioni importanti sul piano del
disinnesco di una bomba assolutamente pericolosa. Gli Ebrei a me sembra
siano al momento assolutamente mal rappresentati da uno Stato la cui
immagine, anche con la costruzione del muro, non è certamente in via di
miglioramento. E, sempre a mio parere, non mi sembra si possa
sostenere che Israele e i suoi governanti facciano il possibile per
migliorarla, questa immagine. Alla quale, peraltro, non giova
l'appoggio preconcetto di una buona parte degli ebrei. Se Israele per
qualche verso sbaglia, sono proprio gli Ebrei, quelli veri, quelli
credenti, quelli che si pongono come onesti cittadini dei diversi Paesi
del mondo e che tutto il mondo deve rispettare e accettare e difendere
che dovrebbero segnalare l'errore e correggerlo. E il primo di questi
errori è a mio avviso costituito proprio dal chiamare a raccolta i
credenti non a difesa della fede, ma di uno Stato la cui immagine tende
a con fondersi con l'arroganza e il cui senso della giustizia con la
vendetta. E, forse, il secondo errore è affidare questa difesa a
personaggi la cui immagine è spesso ai confini della faziosità.
- la gestione dei pozzi di petrolio iracheni non sembra essere al momento oggetto di pensieri particolarmente approfonditi.
Mi ha colpito - ma l'informazione può essere distorta o totalmente
errata - la circostanza che in Afganistan così come in Iraq non sembra
siano stati danneggiati i centri di produzione e di smistamento e
distribuzione della droga. Non mi stupirei se qualcuno sostenesse che
così è stato non soltanto per non colpire interessi occidentali non
confessabili ma esistenti e forti, ma sopra tutto per consentire alle
popolazioni di sopravvivere producendo una qualsiasi delle centinaia di
droghe di cui il nostro mondo civile e colto fa uso sempre più
frequente ed indiscriminato. Ma più ancora mi ha fatto pensare come il
destino di questi popoli sia determinato dalla presenza del petrolio.
Una ricchezza che è innanzitutto di loro proprietà. Noi occidentali
possiamo avere dodicimila ragioni diverse per giustificare l'attuale e
la trascorsa politica nei confronti di questa materia prima, ma tant'è:
il petrolio sembra essere una buona ragione per fare una guerra. E se
lo è, lo è anche da parte degli iracheni. Forse, dallo scenario che ha
determinato la decisione di andare in Iraq il petrolio non è stato
assente. Ma, forse, nessuno ha pensato che in questo settore lo
scenario denunzia una situazione pericolosa.
- delle azioni possibili da affidare all'ONU si parla, ma con più di qualche indecisione.
Credo che quello scenario iniziale di cui mi sto occupando in una cosa
certamente non abbia sbagliato: nell'indicare la debolezza,
l'inconsistenza, la impossibilità di intervento da parte della
Organizzazione delle Nazioni Unite. La questione Iraq avrebbe potuto
essere risolta in modo soddisfacente da un intervento dell'ONU, se gli
interventi dell'ONU avessero avuto e avessero una minima probabilità di
esser cogenti, oltre che convincenti. E non la hanno, questa
possibilità, in fondo per la stessa ragione per la quale l'Europa non
riesce ad essere fattivamente e concretamente presente sullo scenario
mondiale: la cessione di esercizio della sovranità all'ONU così come
all'Europa sembra non essere stata presa nemmeno in considerazione. O,
se lo è stato, si è trattato di qualcosa di troppo debole, di troppo
fumoso, di trotto rimandato nel tempo.
- la coalizione sembra incapace di concludere veramente
questa guerra ed anche di chiamare a raccolta attorno a sé il consenso
attivo del resto del mondo. Ripeto: non sono un esperto di
questioni militari. Ma un dubbio posso averlo. Questo: le guerre così
come le conosciamo e le definiamo vanno combattute fino in fondo, fino
alla vittoria finale che dovrebbe consistere nella fine di ogni e
qualsiasi resistenza armata. La "causa immediata" della guerra, di ogni
guerra, è la vittoria. E la vittoria ha, come effetto primo, la
cessazione di ogni ostilità. Lo scenario attuale vede una coalizione
che sembra aver lasciato le cose a metà. Forse nella fretta di non
perdere il consenso dei cittadini americani e inglesi, il presidente
degli Stati Uniti ha dichiarato "finita" la guerra in un momento
sbagliato. Prematuro. E sopra tutto in assenza di vittoria.
In estrema sintesi, confrontando lo scenario attuale con quello
che, al momento della decisione di scendere in campo contro Saddam era
il "disegno dello scenario futuro" mi sembra di poter affermare che
quest'ultimo, se è stato attuato, lo è stato molto malamente. Ma è
forse più probabile che non sia stato neppure tentato. La qual cosa
potrà forse stupire ("gli americani sono gli inventori delle
previsioni; "gli americani sono gli inventori del marketing"; "gli
americani sono i più attenti analisti dei mercati".. sono soltanto
alcune delle affermazioni apodittiche alle quali noi siamo abituati a
credere e alla quali ci inchiniamo senza avvertire neppure l'ombra di
un dubbio..) ma non più che tanto. In più di un caso la sicurezza che
diviene sicumera; la superiorità tecnica che genera arroganza; gli
interessi personali e particolari che prevaricano quelli generali hanno
consigliato ai responsabili di "dare per scontata" la propria
situazione di superiorità e, quindi, di non occuparsene più che tanto. "Siccome
noi siamo meglio armati e la nostra è una civiltà superiore, il vero e
solo problema è costituito dal vincere la guerra nel più breve tempo
possibile e al minor costo per noi. Tutto il resto è ovvio. Siamo
superiori in armamenti, in ricchezza e in civiltà e dunque i vinti non
potranno che adeguarsi. In modo automatico. Lo scenario futuro è di
conseguenza il seguente: la nostra democrazia, il nostro stato di
diritto, il nostro sistema economico e sociale diverranno il sistema di
governo, la forma dello Stato, il sistema economico e sociale,
dell'Iraq e, subito dopo, degli altri Paesi dell'area". Il che si è
dimostrato assolutamente falso. Ammesso (e non concesso) che la guerra
in Iraq sia finita, la situazione attuale sembra chiaramente indicare
come il mondo occidentale sia stato colto assolutamente alla sprovvista
da una realtà completamente diversa da quella che si attendeva. Saddam
e i suoi hanno dato vita ad una resistenza (io direi ad un vero e
proprio contrattacco, ma non sono né un militare né un esperto di cose
militari e posso sbagliare) che ha già fatto più vittime di quelle
della "guerra propriamente detta" -quella, per intenderci, dichiarata
finita dopo appena diciassette giorni, se non erro; la popolazione
irachena non so se stia con Saddam, ma mi sembra chiaro che non stia
dalla parte degli americani in particolare e degli occidentali in
genere; la guerriglia irachena, se di guerriglia si tratta, e il
terrorismo, se terrorismo è, di Ben Laden sembra si siano saldati e
comunque danno vita ad azioni comuni e coordinate che non hanno come
teatro soltanto il territorio iracheno; e neppure come bersaglio
soltanto i militari dei Paesi propriamente "occupanti". E, sopra tutto,
sembra che il desiderio degli iracheni di essere liberati dalla
dittatura e di acquistare la nostra democrazia non si sia in alcun modo
palesato, neppure soltanto astenendosi dall'attaccare chi - come le
organizzazioni umanitarie e, forse, i nostri Carabinieri- sono o erano
in Iraq a "scopi umanitari", come "costruttori di pace" e "portatori di
solidarietà e condizioni di vita più umane".
2.2. Il prodotto Tutto questo anche perché si è cercata la vittoria sul campo, senza
preoccuparsi adeguatamente del resto. La vittoria quale prodotto
dell'attività militare è stata perseguita come il principale se non il
solo prodotto della guerra, e dunque l'unico vero obiettivo di questa.
Che è vero, nell'ottica del settore produttivo chiamato a realizzare
"la vittoria", e dunque dal punto di vista dell'organizzazione
militare. Per questa sì che la vittoria è il prodotto principale e
unico. Ma per il "gestore dello scambio" ( che della produzione così
come della comunicazione e della apprensibilità e quindi della
distribuzione e dell'utilizzo del prodotto è il coordinatore) la guerra
e la conseguente vittoria non possono che essere mezzi per il
raggiungimento di obiettivi diversi e dunque prodotti strumentali
entrambi. Di primo grado o livello la guerra, di secondo la vittoria. E
sulla natura della vittoria come prodotto si è equivocato. Ripeto: la
vittoria non è un prodotto di consumo immediato, e neppure di immediato
utilizzo, bensì un prodotto strumentale alla produzione di altri,
diversi prodotti. Nessuna vittoria può essere fine a se stessa, se non
in un'ottica miope e sostanzialmente ignorante. Si potrebbe pensare
che probabilmente si è dimenticato che si combatte e si vince per
ottenere qualche cosa di diverso, in genere anche di più complesso e
durevole. E che, dunque, la guerra e la conseguente vittoria non sono
che momenti di un processo estremamente complesso al termine del quale
esiste una linea composta da prodotti numerosi, a loro volta complessi,
collegati da trame sottili e non sempre conosciute. E' questa linea di
prodotti che doveva essere esplorata. Ed è certo che
nell'identificazione del prodotto "finale" ci sia stata più di una
carenza. E' stato detto che si cercava la sicurezza, per gli Stati
Uniti e per tutto il mondo occidentale, soprattutto tenuto conto che un
certo Ben Laden era riuscito a colpire in modo sanguinoso il cuore
della nazione. Ed anche della nostra civiltà. E si è fatta coincidere
la sicurezza con l'eliminazione fisica del nemico. Come dire: morto
Saddam Hussein, la sicurezza se non è proprio garantita è quasi certa.
Vogliamo dire che il non essere riusciti a mettere in condizione di non
nuocere il dittatore iracheno - peraltro, com'è successo con Ben Laden
- sia stato un colpo mancino di un destino sfortunato? Diciamolo pure,
dal momento che la fortuna un suo ruolo lo gioca, sui mercati così come
sui campi di battaglia. Il fatto è che, però, quando anche i due
uomini, e magari alcuni luogotenenti fossero stati fatti fuori (a
proposito: che cosa è successo di Tarek Aziz?), nessuno avrebbe potuto
garantire che la sicurezza del nostro mondo sarebbe stata ripristinata
in modo duraturo. Lo spazio lasciato dai due sarebbe stato certamente
occupato da altri Ben Laden e da altri Saddam, perché il problema non è
- come qualcuno cerca di farci credere - la follia di uno, due, dieci
uomini, bensì un conflitto dalle radici molto più serie e profonde. Che
magari consente a qualcuno di dare sfogo alla follia, ma che non è lì
che si fonda. E allora ecco la necessità di cercare di comprendere
esattamente cosa voglia dire "sicurezza", quale linea di prodotti la
descriva, quali componenti occorre realizzare perché di "sicurezza"
possa seriamente parlarsi. Il farlo avrebbe anche consentito di
dare risposte confidenti ad una domanda che pare non abbia sfiorato la
mente di nessuno. Questa: che cosa è la pace? Una domanda che nessuno
si è posta perché tutti quanti noi siamo portati a dare per scontato
che la pace sia "mancanza di guerra" e, dunque, che dall'assenza di
questa e dalla sua fine scaturisca quasi in automatico, quasi come
gemmazione spontanea. Finita la guerra, nasce la pace. Poi si è
drammaticamente scoperto che non è vero. E non lo è non soltanto perché
la natura della pace non è solo assenza di guerra, ma anche perché il
concetto stesso di guerra è profondamente cambiato e, con esso, la
struttura della fabbrica della vittoria. E la vittoria stessa è
cambiata, certamente non potendo più essere considerata solo come la
manifestazione della superiorità sui campi di battaglia. La vittoria
deve significare accettazione e condivisione della nuova e diversa
situazione che lo strumento chiamato guerra ha contribuito a produrre.
2.3. Lo scenario futuro Sulla base dello
"scenario attuale" - che per questo lavoro è quello di oggi. relativo
alla guerra in corso - diviene in qualche modo possibile tracciare le
linee di un ambiente futuro credibile nel quale i prodotti ai quali la
guerra e la vittoria hanno dato vita possano essere scambiati con
soddisfazione di tutti. In linea di principio e di teoria, nessuno
dubita che tra questi via sia la pace, la giustizia, la libertà, il
rispetto per la vita umana e per l'individuo. Credo che nessuno, sotto
nessuna bandiera e sotto nessun cielo, possa negare questi valori (ed
eventuali altri che in questo momento sono costretto a trascurare).
Credo che si possa essere tutti assolutamente d'accordo. Purché, però,
per ciascuna di queste linee di prodotti siano indicate correttamente
le componenti. Ciascuna linea e ciascun prodotto devono essere
inequivocabilmente in grado di soddisfare i bisogni della popolazione
di riferimento. E l'azione complessiva di gestione degli scambi che ne
conseguono deve svolgersi su due direttrici molto precise:
- la soddisfazione dei bisogni attuali, così come si presentano;
- la formazione ad una cultura che consenta di modificare, se
necessario, la struttura dei bisogni attuali e i comportamenti che ne
conseguono e li indirizzi verso "diversità compatibili"
Il
futuro che l'occidente vede è probabilmente costituito da un popolo e
da uno Stato "amici", con i quali si possa collaborare in un regime di
reciproca fiducia e stima, nel comune interesse. Su questa base
assolutamente generale ho provato a trarre delle conclusioni da quanto
esposto al punto relativo allo scenario attuale.
1. Se democrazia significa "governo del popolo"
occorre identificare che cosa essa significa per il popolo iracheno e
come il popolo e la cultura iracheni pensano che la "loro" democrazia
possa realizzarsi. E attenzione: potrebbe darsi il caso che per
"governo del popolo" gli iracheni intendano il governo di una
particolare categoria di cittadini ai quali l'intera popolazione ha, in
modo più o meno formale e organizzato, delegato l'esercizio del potere.
E a me pare che, al momento, gli iracheni pensino che il loro destino
sarebbe meglio guidato da religiosi iracheni affiancati da laici
iracheni.
2. Se per gli iracheni la struttura dello Stato deve
conservare tutti o parte dei fondamenti della cultura tribale, forse
occorre pensare ad una forma di Stato che lo consenta e ad una sua
organizzazione che permetta a ciascuna tribù di esprimersi nel migliore
dei modi, nel rispetto delle altre.
3. Se Saddam Hussein è ancora attivo, significa che se
lo può permettere, anche per l'accordo con quelle "popolazioni civili"
che noi tentiamo di tenere sempre fuori dalla mischia ma che, nella
realtà, della mischia sono talmente dentro da riuscire a nascondere,
proteggere e rifornire Saddam in modo da consentirgli di tenere in
scacco gli Stati Uniti d'America. E allora, occorre che qualcosa cambi
nella cultura di quei "civili". E su questo terreno noi occidentali
dovremmo misurarci, senza peraltro escludere la possibilità che il
dittatore esprima veramente i desideri di una maggioranza.
4. Se dal resto del mondo arabo giungono quelli che
noi chiamiamo terroristi non solo in aiuto di Saddam ma anche in una
più generica e generale lotta armata all'occidente, la miglior cosa che
si potrebbe tentare a me pare sia quella di disinnescare la mina.
Cominciando dalla questione palestinese. E in questo, l'ONU e gli Stati
Uniti non soltanto possono operare, ma possono farlo con la certezza
dei risultati. Certo, rinunziando a posizioni preconcette; impedendo il
rifornimento di armi ad entrambe le parti; intervenendo sul territorio
con forze di interposizione che impediscano l'avverarsi di episodi di
guerra; probabilmente anche facendo di Gerusalemme una "Città del
Mondo", e, perché no, sede dell'Organizzazione. Ed è anche probabile
che in questo processo debbano inserirsi fattivamente le religioni,
almeno quelle più direttamente interessate al / ai conflitti in corso.
Se è vero che il rispetto della vita umana è un valore comune, e se è
vero che questo vale sia per la vita altrui che per la propria, a me
pare che un intervento dei maestri mussulmani potrebbe essere
determinante nel modificare la visione della vita che i kamikaze
dimostrano di possedere.
5. E poiché siamo in tema di soggetti potenzialmente
attivi, un nuovo modo di guardare all'ONU potrebbe avere risvolti
interessanti. Per esempio, quelli relativi alla formazione: scuole
internazionali di ogni ordine e grado e Università gestite a cura
dell'ONU e aperte senza distinzione alcuna a tutti i giovani
potrebbero, in un tempo certamente non brevissimo ma sopportabile,
produrre risultati di tutto rilievo. E l'ONU potrebbe anche seriamente
interessarsi della soddisfazione dei così detti bisogni di
sopravvivenza dei popoli, in particolare del popolo iracheno e di
quello palestinese. E questo potrebbe fare sia ricorrendo a soluzioni
tampone (cibo, medicine e cure, ricoveri momentanei) sia, sopra tutto,
pianificando il modo di procurarsi le risorse necessarie per una
economia soddisfacente ed una vita di buon livello. Che vuol dire
stimolare il lavoro e l'economia.
6. Il che, per l'Iraq, ci porta direttamente al
problema del petrolio. Stabilito che l'oro nero deve essere di
proprietà degli iracheni e che questi debbono trarne il giusto
guadagno, l'ONU potrebbe già nell'immediato garantire la riduzione di
ogni sfruttamento e il rispetto dei rapporti. Vogliamo scommettere che,
se la cosa funziona, anche le vie della droga diventeranno più pulite? |
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