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Credere Oggi n 131-132 set/dic 2002 La catechesi kerigmatica di Marco |
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di Marco Vironda
1.
L’inganno della semplicità
Agli occhi di un lettore frettoloso il vangelo di Marco può sembrare un racconto vivace, fresco e accattivante, che narra della vita di Gesù, però senza un’eccessiva coordinazione fra episodi (si parla infatti di «trama episodica»), dal contenuto relativamente «semplice» e immediatamente fruibile, riguardante alcuni fatti e (pochi) detti di Gesù, culminante nella storia della sua morte e nell’annuncio della risurrezione. Secondo il parere di famosi studiosi il contenuto teologico e cristologico di questo testo biblico non assurgerebbe ad alti livelli; per la formulazione di questo giudizio tali esegeti trovano conferma nel fatto che Marco sarebbe il primo vangelo a essere stato composto, il che presenterebbe il vantaggio della vicinanza ai fatti e comporterebbe un minor influsso nella loro presentazione della teologia della comunità primitiva.
Questa opinione sulla semplicità (da intendersi come povertà) della teologia marciana non è a nostro avviso assolutamente corretta, dipende da presupposti non sempre dichiarati, e impedisce una lettura approfondita del testo, che, pur nella sua freschezza espressiva, è tutt’altro che banale nel contenuto. Per spiegarci meglio partiamo da un esempio.
Mentre Gesù sta recandosi in casa di Giairo per guarirne la figlia (cf. Mc 5,21-43), è raggiunto da alcuni uomini che portano l’annuncio della morte della ragazza. Per tutta risposta Gesù invita il padre a continuare a credere. Nella casa di Giairo al lettore si presenta la scena di gente che piange e fa trambusto, a riprova della verità dell’informazione sulla morte della bambina, Gesù però pronuncia una frase che non è immediatamente chiara: «Perché fate trambusto e piangete? La fanciulla non è morta, ma dorme» (Mc 5,39). Ciò che segue è noto: i presenti si fanno beffe di lui, ma egli entra in casa con pochi testimoni e risuscita-risveglia la bambina.
Che cos’è stato effettivamente raccontato? Si tratta di un miracolo di risurrezione (l’unico peraltro narrato in questo vangelo) o di una più corretta diagnosi, benché a distanza, da parte di Gesù? Notiamo che, nel caso sia stata descritta una risurrezione, allora avrebbero avuto ragione gli uomini che portarono la notizia della morte della fanciulla, mentre se si fosse trattato di un «risveglio», allora sarebbero state più corrette le parole di Gesù: «La fanciulla non è morta, ma dorme». A chi deve dare credito il lettore?
Il problema è quello di individuare chi nella storia sostenga la verità, come siano da interpretare le parole dei personaggi, quale rapporto ci sia fra le loro espressioni e i loro atteggiamenti profondi (i valori che professano, la loro storia precedente e la loro funzione nel racconto). Altrettanto importante è stabilire quale rapporto ci sia fra la storia narrata (ciò che accade) e il lettore, conoscere se siano stati forniti a lui strumenti interpretativi degli eventi e dei personaggi, che possano aiutarlo a verificare le proprie interpretazioni. Riprenderemo più avanti questo «caso» per risolverlo con strumenti narrativi.
Per comprendere ciò che l’autore del vangelo ha voluto comunicare al lettore è importante situare il suo racconto nel tempo e nella cultura in cui esso è nato, avere qualche idea dei suoi destinatari e riuscire a precisare i valori e le finalità dell’autore. È inoltre determinante conoscere le modalità espressive adottate e il loro funzionamento. Infine, poiché secondo la fede della Chiesa si tratta di un libro canonico, ispirato quindi da Dio, per il lettore credente è fondamentale leggerlo nello stesso Spirito che ha sostenuto e condotto la sua produzione, nella stessa fede della comunità che lo ha generato e a cui è destinato, all’interno di quella stessa comunità che è ora in continuità con quella originaria del vangelo.
Questo articolo si propone di fornire alcune prospettive per comprendere la modalità comunicativa scelta dall’autore e derivare da essa alcuni criteri per la lettura del testo; l’articolo precedente di questo stesso volume ha già descritto il contesto storico e culturale dell’opera e gli articoli successivi ne approfondiranno vari temi significativi.
A quale tipo di letteratura appartiene il vangelo secondo Marco? La questione è davvero importante, perché dalla natura del testo dipende la pertinenza delle domande che a esso rivolgiamo e dei metodi assunti per cercarvi una risposta; dobbiamo quindi fare un piccolo sforzo di teoria letteraria. Non si tratta qui di discutere determinazioni quali il genere letterario dell’intera opera o delle singole forme presenti in essa, quanto di verificare il tipo di enunciazione del testo: si tratta di letteratura narrativa, argomentativa, o descrittiva? Questa distinzione fra tipi di enunciazione non concerne il genere letterario, ma la modalità del discorso, e per discorso intendiamo «una totalità ordinata che forma un’unità globale di significazione»[1]. Il discorso poi di volta in volta assumerà uno specifico genere letterario, legato al contesto storico, ai gusti e alle possibilità dell’autore, nonché al contenuto da esprimere.
I critici e i teorici della letteratura distinguono in genere fra enunciati narrativi, argomentativi e descrittivi, e per enunciato narrativo intendono «la rappresentazione di almeno due avvenimenti o situazioni, reali o immaginari, in una sequenza temporale»[2]. Non è da escludere nelle opere narrative la presenza di altri enunciati: per esempio, all’interno di un discorso tenuto da un personaggio possono esserci spiegazioni o argomentazioni, o l’autore può attardarsi nella descrizione di un ambiente. Ma laddove prevalgono per quantità e funzione enunciati narrativi, possiamo identificare tali opere come narrativa.
Abbiamo quindi appurato l’importanza della dimensione del «tempo», spesso connessa a quella dello «spazio», ma dobbiamo aggiungere un altro elemento, il narratore. Perché una composizione sia narrativa è necessario che ci sia una storia e un narratore, altrimenti saremmo nel più alto grado di mimesi, che Aristotele individuava nella tragedia[3]. È il narratore, infatti, (o meglio l’autore) che ordina gli avvenimenti (l’ordine del racconto non sempre coincide con quello cronologico, possono esserci flash-back o anticipazioni) ed eventualmente esplicita le connessioni causali fra di essi. In tal modo possiamo identificare un’altra qualità specifica della narrativa: la presenza di un intreccio o trama (elemento dinamico e di sequenza, successione causale di eventi). Accanto a essa e come costitutivo essenziale della narrazione troviamo la caratterizzazione: il processo attraverso il quale un personaggio è tratteggiato dall’autore ed è corrispettivamente ricostruito dal lettore.
Ora, il vangelo secondo Marco si presenta come un’opera di narrativa, coerente e unitaria, per la presenza di una trama, di una serie di personaggi, e di un narratore che racconta la storia[4]. Possiamo citare quanto sintetizzano recentemente gli autori di una delle principali opere di riferimento per l’analisi narratologica di Marco.
«Il punto di vista del narratore è consistente. La trama è coerente: gli eventi che sono annunciati accadono; i conflitti sono risolti; le profezie si compiono. I personaggi sono consistenti da una scena all’altra. Tecniche letterarie della narrazione, modelli ricorrenti, schemi che si sovrappongono e motivi intrecciati connettono l’intero racconto. Consistente è pure la descrizione tematica della condizione umana, della fede, del regno di Dio, delle scelte morali, e delle possibilità di cambiamento per l’uomo. L’unità di questo vangelo è manifesta nell’integrità della storia raccontata, che fornisce un potente effetto retorico complessivo»[5].
Si è così appurato che anche la letteratura evangelica e in specifico Marco è un’opera narrativa che crea un mondo, o meglio che lo rappresenta: è una re-praesentatio del mondo, perché lo rende nuovamente presente al lettore, il quale deve partecipare alla sua ricostruzione[6]. Di questo mondo narrativo fanno parte certamente gli eventi, ma anche le ambientazioni e i personaggi (la storia), organizzati nella forma data loro dal narratore (il discorso)[7]. Il lettore dovrà seguire, però, le indicazioni del narratore, o meglio lasciarsi istruire dal testo e riconoscere il ruolo che la narrazione gli impone: egli non può rimanere pigro di fronte a un’opera che invece può, a diritto o per scelta, esserlo. In altri termini, come afferma U. Eco, «un testo è un prodotto la cui sorte interpretativa deve far parte del proprio meccanismo»[8]. Alle caratteristiche della narrativa individuate prima (una storia e un narratore) dobbiamo, quindi, aggiungere il lettore, inteso come parte integrante del processo comunicativo.
Il modello narratologico prevede, infatti, la comunicazione fra l’autore implicito, il narratore, il narratario, il lettore implicito[9]. Queste sono le istanze diegetiche che permettono all’autore reale e al lettore reale di entrare in comunicazione attraverso il testo. Nello studio di un’opera narrativa come i vangeli occorrerà, quindi, tenere in considerazione quali scelte l’autore chiede al lettore, oppure come il lettore deve conformarsi a quanto la narrazione si attende da lui (lettore implicito). Per queste ragioni lo studio della trama di Marco ci permette di entrare nella dinamica comunicativa prevista dal testo e di individuare il suo messaggio.
Anche se si tratta di un racconto, quindi di un continuum che si dispiega nel tempo della narrazione-lettura, tuttavia gli esegeti hanno sempre cercato di riconoscere quale strutturazione l’autore avesse conferito al materiale da lui raccolto o elaborato, per essere aiutati nella sua interpretazione. Pur con l’avvertenza di non porre cesure nette in una narrazione, si possono nondimeno riconoscere in essa alcune sezioni principali.
Seguendo grossomodo l’articolazione di van Iersel[10] riconosciamo quindi, dopo il titolo dell’intera opera (1,1), la presenza di una prima sezione introduttiva ambientata nel deserto (1,2-13), di un considerevole spazio narrativo dedicato alle vicende del protagonista in Galilea (1,14-8,21), di una sezione centrale che ruota attorno al concetto geografico e teologico della via (8,22-10,45), seguita dalla narrazione delle vicende in Gerusalemme (11,1-15,39) e dal racconto della sepoltura e della tomba vuota (15,40-16,8).
Dobbiamo subito fare alcune considerazioni. Ci sono innanzi tutto buone ragioni di critica testuale che portano a ritenere 16,9-20 come non facenti parte del racconto originario. Essi costituiscono in pratica un altro racconto, riguardante le apparizioni di Gesù, aggiunto successivamente a quello che dovette parere un modo strano di concludere la narrazione. Infatti il vangelo di Marco si chiude con la menzione della paura, della fuga e del silenzio delle donne incaricate di annunciare la risurrezione di Gesù. In ogni caso la chiesa accoglie tali versetti come testo ispirato, facente così parte del canone, ma in base a ragioni letterarie vanno appunto ritenuti un altro testo.
Una seconda considerazione ci riporta alla strutturazione indicata sopra. Abbiamo parlato di un continuum narrativo. Tale affermazione è supportata tra l’altro dalla presenza di alcune pericopi che fungono da collegamento facilitando la transizione fra le sezioni, in particolare 1,14-15 e 15,40-41. Tra l’introduzione, che è ambientata nel deserto e parla di Giovanni e di Gesù, e la sezione della Galilea, si situa 1,14-15, che segnala la fine del ministero del precursore, lo spostamento di Gesù in Galilea e l’inizio della sua predicazione. Tra la sezione di Gerusalemme, in particolare dopo la morte di Gesù e quindi la fine del suo ministero, e la sezione della tomba vuota è posto 15,40-41, che richiamano al lettore il periodo della Galilea e fanno scoprire la presenza nascosta di alcuni personaggi (le donne) che hanno seguito Gesù fino a questo punto (richiamando così l’intero percorso di Gesù) e che saranno coinvolti nell’annuncio della risurrezione.
Oltre a queste due pericopi di transizione sono da segnalare i due miracoli operati su dei ciechi, che incorniciano la parte centrale: la guarigione di Betsaida (Mc 8,22-26) e quella di Gerico (Mc 10,46-52). Essi sono posti agli estremi della sezione dedicata alla «via» del protagonista, quella cioè in cui egli si sposta dalla Galilea a Gerusalemme e quella in cui egli annuncia ai discepoli il significato profondo di questo spostamento geografico, ossia il suo destino di sofferenza, morte e risurrezione[11]. Il maestro vuole aprire gli occhi dei discepoli, i quali resteranno però ottusi e non comprenderanno il suo insegnamento. La prima guarigione avviene proprio dopo un’interessante serie di domande con le quali si pone in risalto l’incomprensione dei discepoli, tra l’altro attraverso l’uso del campo semantico del vedere, simbolico della conoscenza («Avete occhi e non vedete...», Mc 8,18), come per mostrare che Gesù è in grado di donare la vista. La seconda guarigione avviene prima dell’ingresso a Gerusalemme e rende un uomo cieco capace di seguire Gesù nella sua via. Anche queste due pericopi collegano, quindi, tematicamente le sezioni fra cui sono poste; su di esse torneremo, per ora era necessario mettere in rilievo questa loro funzione di collegamento per mostrare, almeno per allusioni, l’attenta composizione unitaria di quest’opera.
Per cogliere la finalità di Marco e la sua modalità di comunicazione (il contratto con il lettore) è di fondamentale importanza un’attenta considerazione degli inizi, perché in essi sono messi in atto tutti gli espedienti narrativi che saranno successivamente utilizzati, è presentato il protagonista, è determinato il rapporto fra narratore e lettore.
È sorprendente constatare che la narrazione si apre con il richiamo a un altro testo, citato come libro del profeta Isaia (Mc 1,2-3), istituendo sin dall’inizio una relazione intertestuale decisiva con le Scritture di Israele. Marco narra il compimento delle Scritture, si presenta quindi dipendente da esse come da fonte autorevole in cui è annunciato il piano di Dio e, al contempo, come la narrazione della realizzazione di quel piano, attirando quindi su di sé l’autorevolezza della fonte.
Allo
stesso tempo però il vangelo si presenta come un racconto che interpreta le
Scritture, come una ri-Scrittura autorevole. Infatti, nonostante la formula di
introduzione (1,2a) accenni al profeta Isaia, non è questa l’unica fonte
della citazione iniziale. Come è stato riconosciuto dagli esegeti, 1,2b-3 è
in realtà una conflazione[12]
di testi, provenienti da Es 23,20
(citato in forma simile alla LXX), Ml 3,1 (tradotto dall’ebraico ma non
secondo la versione alessandrina) e Is 40,3 (anche questo secondo il greco
della LXX). Inoltre, il testo stesso ha subito significativi cambiamenti in
modo tale che «la strada del Signore» di cui si parlava nell’Antico
Testamento diventi quella che percorrerà il «tu» a cui Dio parla. Anzi
anche il titolo «Signore» potrebbe essere accostato – e di fatto lo è –
all’identità, per ora non ancora svelata, di questo «tu».
Con
elementi tratti dalla Scrittura l’autore ha, quindi, ricostruito una scena
in cui il locutore, chiaramente Dio, si rivolge a un «tu» facendolo
partecipe di un progetto, la preparazione della sua strada, e assicurandolo al
contempo dell’invio previo di un precursore, chiamato «messaggero» e
identificato con la «voce di uno che grida nel deserto». Ci pare importante
insistere su questo aspetto: dal punto di vista narrativo si tratta di una
scena vera e propria, che rappresenta una sorta di compendio del progetto
divino contenuto nelle Scritture, ma già riletto in funzione di quel «tu»
che deve venire. Tale progetto è la «sua via», quella che Dio ha preparato
e che egli deve percorrere. Se però è chiaro che colui che parla è Dio, la
narrazione non ha ancora esplicitato il nome del messaggero o di colui a cui
Dio si rivolge. Il proseguimento immediato del racconto, nell’essenziale sua
connessione con questa citazione, sarà incaricato di svelare al lettore
queste due identità.
Poiché
si inizia a raccontare citando la parola di Dio e mostrando che essa si
avvera, si dichiara con ciò di assumere come riferimento normativo per i
valori il punto di vista di Dio, la sua prospettiva di giudizio sulle vicende
e sui personaggi. Il lettore dovrà tenere a mente questo criterio per
valutare i personaggi, le loro affermazioni ed eventi. A conferma di questa
posizione la storia successiva mostrerà che sia il narratore, sia il
protagonista, faranno riferimento a Dio e alla sua parola. Possiamo esprimere
questo concetto attraverso le parole stesse di Gesù: «Pensare le cose di Dio»
(cf. Mc 8,33).
L’autore
sottolinea l’altezza di questa prospettiva con una scelta molto eloquente:
ogniqualvolta debba far sentire sulla scena una parola che proviene
esplicitamente da Dio, egli ricorre alle parole della Sacra Scrittura.
Contestualmente Dio, in quanto personaggio, non appare mai sulla scena; la sua
invisibilità, segno della sua trascendenza, è rispettata. Inoltre, a
garanzia dell’efficacia di questa parola, ogni progetto divino è portato a
compimento nella storia di Gesù e da Gesù stesso. Possiamo concludere senza
ombra di dubbio che il punto di vista normativo per ogni valutazione
all’interno della vicenda raccontata e della narrazione è quello di Dio.
Subito dopo la citazione e come correlativo alla congiunzione iniziale «come (kaqw,j 1,2)» è presentata la figura di Giovanni Battista (1,5-8). Egli è il messaggero annunciato: lo dimostrano la localizzazione del suo ministero (il deserto), i suoi abiti, che richiamano quelli del profeta Elia (a cui anche il testo di Ml 3,1 alludeva), ma soprattutto il suo ministero di predicazione della conversione e il suo annuncio di uno «più forte» che sarebbe venuto dopo di lui. Il lettore riconosce così che il piano di Dio si sta compiendo. Inoltre riceve ulteriori informazioni circa colui che deve venire: sarà «più forte» di Giovanni e anche il suo battesimo sarà radicalmente nuovo, escatologico, perché battezzerà nello Spirito Santo.
Solo a questo punto entra in scena nella narrazione Gesù (1,9), proveniente da Nazaret di Galilea. Contrariamente a ogni aspettativa trionfalistica, potenzialmente sollevata da quanto sinora detto, di lui si afferma soltanto che fu battezzato da Giovanni: non c’è alcun accenno a un eventuale riconoscimento da parte del precursore e ancor meno da parte delle folle. Ma subito dopo il suo battesimo sono riservati a lui una visione e una parola dal cielo, della quale anche il lettore è reso partecipe. Una «voce dal cielo», chiaramente quella di Dio, si rivolge a Gesù e dichiara: «Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto» (1,11).
Questa è una scena decisiva per la dinamica narrativa e per il rapporto fra lettore e racconto. Dopo la citazione iniziale si ode nuovamente la voce divina che si rivolge a un «tu», identificabile con quello di 1,2-3, e ne proclama l’identità vera, dichiarando quale relazione ci sia fra lui e Dio: è il Figlio di Dio. Nel corso del racconto questo titolo sarà riservato esclusivamente a Gesù, non sarà utilizzato per gli uomini, anzi esso non sarà neppure disponibile a nessun personaggio umano della narrazione finché Gesù sarà in vita. Inoltre, la stessa voce dichiara tutto il suo compiacimento in un personaggio che ancora non ha fatto alcunché, se non venire a mettersi in fila con i peccatori per essere battezzato.
In effetti, la scena della voce dal cielo è una rivelazione segreta, della quale gli attori umani non mostrano assolutamente alcuna recezione[13]. Nel racconto essi non sanno e non proclamano che l’identità profonda di Gesù è quella del Figlio di Dio, ma neanche riescono a conoscere la fonte dalla sua autorità, ossia in termini narrativi non conoscono l’origine della sua competenza. Il lettore, invece, avendo goduto dell’assistenza del narratore onnisciente, conosce l’identità vera di Gesù (egli è il Figlio di Dio), conosce la grandezza della sua competenza, che può far risalire alla sua identità e al dono dello Spirito, che la scena dopo il battesimo ha rivelato scendere su di lui. La scena del battesimo assicura, inoltre, il lettore che anche Gesù conosce tutto ciò, poiché si tratta innanzitutto di un dialogo fra Dio e il protagonista. Questi elementi saranno fondamentali nel proseguimento della narrazione, giacché il lettore constaterà come Gesù manterrà nascosta la propria identità percorrendo il cammino per lui preparato dal Padre, non riconosciuto, in mezzo agli uomini. Da questo punto di vista si comprende bene come questa scena non narri l’adozione a Figlio di Gesù di Nazaret, ma manifesti l’essere profondo del protagonista e la sua competenza a favore del lettore[14].
Nella scena successiva ritorna l’elemento di umiliazione tipico del percorso di Gesù nel vangelo di Marco: quello stesso Spirito che scende su Gesù lo spinge nel deserto, dove rimane quaranta giorni, tentato dai demoni e servito dagli angeli. La scena descrive bene i due aspetti correlativi di gloria e di umiliazione che caratterizzeranno il cammino del Figlio di Dio, ma soprattutto mostra come il programma narrativo della citazione iniziale sia ora compiuto: la via di Dio è aperta nel deserto per il protagonista, il messaggero-angelo promesso si è concretizzato nella predicazione di Giovanni e nella presenza degli angeli, entrambi nel deserto[15]. Il cammino può cominciare.
L’introduzione della narrazione ha, quindi, presentato al lettore l’altezza dell’identità e della competenza del protagonista, ne ha manifestato la relazione con Dio e con il suo piano eterno, e ha dichiarato quale sia il riferimento valoriale, il punto di vista valutativo, che è normativo per il racconto. Possiamo però chiederci che cosa significhi, per la comunicazione fra autore e lettore, iniziare un racconto anticipando già l’identità del protagonista e la sanzione, ossia il giudizio sul suo operato? Che cosa resta da scoprire al lettore? Egli già conosce chi Gesù sia e anche l’approvazione del suo cammino da parte di Dio; come questa conoscenza privilegiata di cui è stato messo a parte potrà guidarlo nell’interpretazione del racconto?
In qualsiasi storia, in base alla posizione assunta nei confronti del punto di vista normativo i personaggi si dividono in schieramenti o almeno si pongono in diverse relazioni gli uni con gli altri. Questo genera i conflitti: «Gli eventi e le azioni di una storia spesso suppongono il conflitto, perché questo è il cuore della maggior parte delle storie. Senza conflitto moltissime storie sarebbero solo una serie di eventi collegati senza tensione o suspence o lotta da parte dei personaggi»[16]. Anche nel vangelo secondo Marco la diversa posizione assunta nei riguardi del punto di vista normativo determina conflitti più o meno profondi, che riguardano di volta in volta Dio, la sua parola e il suo volere, la missione del Figlio e la risposta attesa da parte degli uomini.
In particolare ci sono due linee di conflitto che si estendono per tutta la lunghezza della narrazione, quello fra Gesù e i suoi avversari e quello fra Gesù e i suoi discepoli. Non è il caso di riassumere tutto il racconto, basti qui richiamare i dati essenziali.
Il conflitto fra Gesù e gli avversari sorge, su segnalazione del narratore, sulla base della superiore competenza di Gesù (cf. Mc 1,22: insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi). Nel corso del racconto, proprio in base alla diversa posizione assunta nei confronti del punto di vista di Dio e a partire dalla propria competenza, Gesù porterà avanti la propria missione scontrandosi con il giudizio e la condanna delle autorità (cf. la sezione 2,1-3,6), che culminerà ben presto nella decisione di eliminare fisicamente Gesù (3,6). Da allora in poi l’ombra nera di questa minaccia si stenderà sul cammino di Gesù, con momenti in cui la divergenza diventerà esplicita (cf. 3,22.30; 7,1-13; 8,11-13) e particolarmente pericolosa quando Gesù giungerà nel loro territorio, in Giudea (cf. 10,2) o in Gerusalemme, dove nel tempio gli sarà chiesto esplicitamente di rendere ragione della sua autorità (11,27-28) e si tenterà di coglierlo in fallo per avere di che accusarlo (cf. 11,12.13-14.18). Alla fine le autorità troveranno il modo di catturarlo grazie al tradimento di uno dei Dodici (cf. 14,1-2.10-11), realizzeranno questo piano la notte di Pasqua e lo metteranno a morte, con la complicità del governatore romano, il giorno dopo (cc. 14-15).
Il conflitto con i discepoli è di diverso tipo. Non si deve parlare di scontro come nel caso delle autorità, ma di una difficoltà permanente da parte dei discepoli ad accoglie la prospettiva di Gesù, il punto di vista di Dio, a «pensare le cose di Dio». La differenza sostanziale di questo conflitto è segnalata già dal fatto che, mentre Gesù non cerca le autorità per provocarle, pur non rinunciando alla franchezza nel parlare, nel caso dei discepoli è Gesù stesso che avvia la storia con loro. La prima azione di Gesù narrata in una scena singolativa[17] è infatti la chiamata di quattro discepoli (1,16-20), a cui seguirà quella di Levi il pubblicano (2,13-14). Nelle relazioni con i discepoli Gesù stesso sceglie i suoi interlocutori, all’interno di essi ne chiama alcuni conferendo loro parte della propria competenza (3,13-19: si noti l’insistenza sul volere di Gesù: «Chiamò a sé quelli che egli volle»), li invia in missione (6,7-13) ed essi paiono riuscire in molti dei compiti assegnati loro da Gesù (6,12-13.30), così come hanno prontamente risposto alla sua chiamata[18].
L’aspetto conflittuale risiede piuttosto nella permanente difficoltà dei discepoli a cogliere l’identità di Gesù e il mistero del suo cammino in mezzo agli uomini. Anch’essi, come le folle (1,27; 6,2-3), si chiedono chi egli sia (4,41), senza riuscire a penetrare nel profondo della sua identità, senza allinearsi cioè al punto di vista espresso da Dio con il titolo «Figlio». Anche la confessione di Pietro («Tu sei il Cristo», 8,29) da questo punto di vista non è decisiva: essa dice qualcosa che è vero, corregge le precedenti opinioni della folla (nella linea profetica), ma non è sufficiente, perché non giunge a identificarsi con quanto Dio stesso ha detto di Gesù[19]. L’indurimento dei discepoli non cambia neanche dopo che alcuni di essi hanno ricevuto una rivelazione analoga a quella del battesimo: infatti, dopo la trasfigurazione (9,2-8) i testimoni della dichiarazione del Padre non mostreranno di avere accolto e compreso l’identità di Gesù e il loro comportamento non differirà in nulla rispetto a quello degli altri discepoli, che non sono stati beneficiari di tale rivelazione.
Accanto però a quello dell’identità, c’è un secondo aspetto nel quale i discepoli mostreranno un cuore indurito, incapaci di comprendere il mistero di Gesù: si tratta del suo destino. Dopo la confessione di Pietro ripetutamente Gesù annuncia ai discepoli «apertamente» che andrà incontro alla passione, alla morte e alla risurrezione (8,31; 9,9-13.31; 10,33-34.45; 12,6-8; 14,8.18.22-25.27-28), ma non otterrà da parte dei discepoli alcun segno di comprensione o di accoglienza della sua strada.
Dopo il primo annuncio Pietro rifiuta il destino di sofferenza del maestro ed è pertanto ripreso da Gesù (8,32-33). Dopo la seconda predizione il narratore afferma che i discepoli non compresero (9,32), e che reagirono all’annuncio della morte del loro maestro pensando alla sua successione (chi fosse il più grande fra di loro, 9,33-37). Il cinismo giunge al culmine quando, avendo in qualche modo compreso che il destino di Gesù avrebbe avuto una fase gloriosa, dopo un nuovo annuncio della morte e risurrezione due di loro raccomandano la loro posizione suscitando l’ira degli altri (10,35-45)[20]. Le cose non cambiano nell’ultima sera, quando diventa evidente che nella cattura di Gesù è coinvolto uno dei Dodici (14,19-21) e Gesù predice la fuga di tutti (14,27), a cui seguono vane attestazioni di fedeltà da parte dei discepoli e di Pietro in particolare. Il mistero del cammino di Gesù è strettamente collegato a quello della sua identità e potrà essere compreso solo al termine, ma torneremo oltre su questa connessione.
Da un certo punto di vista il conflitto con gli avversari è più grave, perché condurrà alla morte di Gesù, ma a livello funzionale esso è finalizzato in modo misterioso al secondo, quello con i discepoli, che è iniziato e gestito in modo attivo da Gesù, il quale sceglie, chiama, conferisce potere e istruisce, dimostrando così di comprendere anche il fallimento dei discepoli nel proprio cammino, in segno di misericordia.
La soluzione di tale conflitto non può essere percepita dal lettore se si limita a considerare le azioni e i risultati ottenuti dai discepoli: a questo livello dobbiamo ammettere che la valutazione sarebbe fallimentare. Occorre considerare chi è all’origine di questo conflitto, chi ha compiuto le scelte e chi porta avanti, nonostante l’indurimento dei soggetti, la storia con i discepoli. Si tratta di Gesù, che nel racconto marciano è il portatore del punto di vista normativo di Dio, colui che ha competenza e autorità per annunciare il regno e determinare chi ne prenda parte.
La presentazione dei discepoli è lasciata al protagonista, Gesù, quindi il valore positivo o negativo della loro figura dipende da lui, dalle sue scelte e dal suo giudizio su di loro. Ora il racconto, lo si è detto, comincia con la scelta dei discepoli da parte di Gesù, continua presentando Gesù nell’atto di insegnare e richiamare continuamente i propri discepoli, e termina presentando Gesù nuovamente sulla via, nella posizione del maestro, che precede-guida i discepoli. Tutto ciò impedisce che il lettore tragga un giudizio definitivo e negativo dall’operato dei discepoli e lascia che siano le scelte di Gesù a costruire la loro figura, evidentemente come oggetto della sua ricerca e della sua misericordia.
A questo proposito si può notare come nel vangelo di Marco sia presente un processo di «caratterizzazione a cascata»: la presentazione del personaggio Gesù è compiuta da Dio, e quella dei discepoli da Gesù. A questa considerazione si arriva però solo studiando il punto di vista ideologico del racconto, come abbiamo detto sopra, l’insieme dei valori normativi nella narrazione e l’individuazione della figura che ne è all’origine.
Ma per comprendere meglio le connessioni tra il conflitto con i discepoli e quello con le autorità è necessario passare a studiare un altro aspetto del racconto marciano che ha dato spesso del filo da torcere all’esegesi: il segreto messianico.
Si è osservato che in Marco Gesù ordina sovente di tacere. Questo comando è a volte rivolto ai demoni, affinché non rivelino la sua identità[21], altre volte a coloro che sono stati guariti da vari mali o da cui sono stati cacciati i demoni (1,44; 5,43; 7,36)[22], altre volte ancora si tratta di un’ingiunzione a tacere rivolta ai discepoli affinché non rivelino quanto già sanno di Gesù (8,30; 9,9.30; 10,32). Accanto a questi espliciti inviti a tacere si può notare che spesso Gesù è piuttosto schivo, cerca di restare nascosto o almeno non ricerca il plauso o le acclamazioni della folla (1,36-39; 5,37.40; 7,24.33; 8,22-26). A fronte però di questa voluta reticenza di Gesù il comando di tacere non è sempre rispettato. Come si può risolvere questa apparente contraddizione della narrazione?
Wrede
pensava al segreto messianico come a una costruzione teologica premarciana che
permetteva di conciliare il dato della proclamazione postpasquale di Gesù in
quanto Cristo (scoperto tale con la risurrezione) con un altro dato,
altrettanto tradizionale, secondo cui già durante il suo ministero pubblico a
Gesù era stato riconosciuto un ruolo messianico; nei detti con il silenzio
infranto egli vedeva l’espediente redazionale attraverso cui emergeva che
Gesù era il Cristo fin dal suo ministero terreno. Molti
studiosi si posero prevalentemente a livello gesuano per sostenere contro
Wrede l’autenticità della richiesta di silenzio (A. Schweitzer,
G. Bornkamm); anche recentemente G. Theissen e A. Metz hanno
sostenuto che Gesù ebbe una coscienza messianica senza tuttavia manifestarla
con il titolo corrispondente. Altri proseguirono piuttosto sulla linea di
Wrede, leggendo tale segreto in funzione della redazione (R. Bultmann, M.
Dibelius, H.J.
Ebeling). Vennero in seguito
apportati correttivi, osservando che solo ciò che riguarda l’identità di
Gesù ricade sotto il segreto (U. Luz eccettua la diffusione della fama, e
T.J. Weeden esclude l’aspetto dell’incomprensione dei discepoli). Uno
studioso di valore si è spinto fino a negare la coerenza del segreto
messianico, con il risultato di sminuirne il valore per la teologia
dell’opera e per apprezzare l’abilità del narratore (H. Räisänen).
Oggi, a giudizio tra gli altri di R. Penna, la teoria formulata da Wrede è
ritenuta comunemente insostenibile; egli accetta che Marco presenti la
rivelazione di Gesù come Messia attraverso i suoi gesti potenti, ma
soprattutto attraverso tutto l’arco del racconto, comprendendo quindi anche
la croce e negandone ogni valenza politico-terrena[23].
Come districarsi di fronte a questa varietà di ipotesi?
Poiché il vangelo secondo Marco è un’opera narrativa, cerchiamo la soluzione di questo problema con i criteri messi a disposizione dall’analisi narrativa e identifichiamo il contenuto e la funzione del segreto messianico su base testuale. A livello di contenuto possiamo definire che è segreto ciò che nel racconto non riceve divulgazione, o perché non è rivelato da coloro che conoscono, o perché non è compreso e conseguentemente non è a disposizione dei personaggi.
In tal modo osserviamo, innanzi tutto, che ci sono ricorrenze in cui il silenzio imposto è di fatto rispettato (cf. Mc 1,25.34; 3,12; 8,30; 9,9): esse rappresentano le volte in cui tale ordine riguarda l’identità di Gesù, rivelata dai demoni, in modo parziale da Pietro, e da Dio. Non si può quindi affermare che il segreto sia sistematicamente violato, anzi esso è mantenuto sempre quando riguarda l’identità del protagonista, mentre è violato se concerne la diffusione della fama, la comunicazione degli atti potenti compiuti dal protagonista (cf. 1,44; 5,43; soprattutto il sommario di 7,36). Un primo risultato è, quindi, rappresentato dalla constatazione di uno stretto legame tra il segreto e l’essere di Gesù.
Questa osservazione ci situa subito in una prospettiva corretta: ciò che propriamente è mantenuto segreto durante il racconto di Marco è che Gesù è il Figlio di Dio. Questa comprensione profonda dell’identità di Gesù non è disponibile agli uomini se non è loro rivelata da un’istanza superiore. Nel caso del lettore e dei tre discepoli presenti alla trasfigurazione è Dio colui che dichiara l’identità di Gesù (cf. 1,11 e 9,7). Anche il sommo sacerdote però deve aver compreso qualcosa, se durante il processo chiede a Gesù: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto» (cf. 15,60); come è stato raggiunto da questa informazione? Possiamo trovare una risposta nella parabola dei vignaioli omicidi (12,1-12), proclamata da Gesù per le autorità: in essa egli si è presentato in modo parabolico come il Figlio (cf. 6a: «Aveva ancora uno solo, il figlio prediletto»).
Questa conoscenza dell’identità di Gesù non è però disponibile agli uomini, nel senso che nessun personaggio umano di Marco arriva a dichiararlo Figlio di Dio. Inoltre, anche coloro a cui l’identità di Gesù è rivelata non la comprendono o non la ammettono: abbiamo già osservato che i tre beneficiari della trasfigurazione non mostrano alcuna differenza di comprensione e comportamento rispetto agli altri discepoli, ma anche le autorità al processo, di fronte alla chiara risposta di Gesù, rifiutano tale prospettiva ne fanno anzi l’occasione per la condanna a morte[24]. Se questa verità non è accolta, allora il segreto non è ancora svelato, almeno sino alla «confessione» ai piedi della croce, dove, vedendolo morire così, il centurione esclama: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio» (cf. 15,39). Sul valore contenutistico e narrativo di questa confessione dovremo ritornare, per ora proseguiamo a individuare l’oggetto del segreto messianico.
Gli unici attori che si rivolgono a Gesù riconoscendolo Figlio di Dio sono i demoni, esseri soprannaturali che, nel mondo narrativo di Marco come nel contesto storico dell’autore, hanno accesso a una conoscenza superiore. Essi si allineano per quanto riguarda il riconoscimento dell’identità di Gesù con la prospettiva divina, ricordando così al lettore che il titolo esprimente l’identità vera di Gesù è «Figlio di Dio». Notiamo che nel racconto i demoni obbediscono a Gesù, non solo perché si allontanano dagli ossessi durante gli esorcismi, ma perché accettano la consegna del silenzio: essi lo dichiarano Figlio di Dio, ma nessun personaggio umano mostrerà una recezione di questo dato[25].
Da parte dei personaggi umani del racconto sono utilizzati per Gesù altri titoli che veicolano la loro comprensione di Gesù. Il titolo più utilizzato è quello di «maestro» (a volte «rabbi»), che esprime il rispetto dei suoi interlocutori verso colui che insegna con autorità[26]. Ci sono però anche gli altri titoli che sono tradizionalmente riconosciuti come espressivi di una cristologia più alta. Le folle mostrano una comprensione profetica della persona di Gesù (6,14-16; 8,28), e questa idea riemerge da parte degli schernitori dopo la sua condanna a morte (14,65). A questo proposito diciamo subito che il racconto di Marco non offre un accesso all’identità di Gesù attraverso questa categoria, piuttosto con essa descrive l’atteggiamento di rifiuto che Gesù subirà da parte del suo popolo, come egli stesso dichiara in 6,4: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e nella sua parentela e nella sua casa».
C’è un altro insieme di titoli attribuiti a Gesù dai personaggi della vicenda, che ruota attorno al concetto della regalità messianica. Egli, infatti, è chiamato «figlio di Davide» (10,47.48), un titolo utilizzato non tanto per indicare una genealogia, quanto per specificare in senso regale, eventualmente trionfalistico, la sua messianicità. Però Gesù stesso nega che tale titolo, e quindi questa interpretazione della messianicità, convenga al Messia (cf. 12,35-37).
Al protagonista viene anche attribuito il titolo di re[27]. Il racconto ha preparato uno sfondo negativo per questo termine, applicato prima al persecutore Erode (6,14, poi 6,17-29), poi ai persecutori dei discepoli (Mc 13,9): Anche nell’ingresso in Gerusalemme «il regno che viene» non è attribuito direttamente a Gesù (cf. 11,10). Solo con il processo davanti a Pilato questo titolo sarà utilizzato per Gesù, quando però egli è ormai stato condannato a morte dalle autorità del suo popolo, schernito e battuto. Osserviamo, innanzi tutto, che Gesù non mostra la stessa decisione nel rispondere alla domanda di Pilato (cf. 15,2: «Tu sei il re dei Giudei?»), come aveva fatto rispondendo al sommo sacerdote in 14,61. Infatti l’espressione «tu (lo) dici» lascia all’interlocutore la responsabilità dell’affermazione[28]. Inoltre Pilato accredita tale titolo all’opinione dei Giudei (v. 12)[29], di cui conosce l’invidia (v. 10), ma tutti coloro che da questo momento in poi lo utilizzeranno, gli conferiranno connotazioni negative (è il «motivo della condanna» nel v. 26) o mostreranno di non ritenerlo vero (cf. gli scherni dei soldati e dei sommi sacerdoti). La situazione «drammatica» permette subito di notare che al titolo non corrisponde assolutamente l’interpretazione trionfalistica degli schernitori, anzi, se il titolo può essere riconosciuto a Gesù dal lettore (mentre non lo è da parte degli attori, che lo adottano in senso ironico), esso subisce però una trasformazione semantica, nel senso che il significato di «re» e la modalità del suo esercizio sono oramai determinate dalla vita di Gesù, o meglio ancora dalla sua passione.
Si potrebbe ancora pensare che l’identità di Gesù sia sufficientemente descritta dal titolo Cristo. Questo termine però, come abbiamo accennato sopra, ricopriva all’epoca una gamma di significati talmente ampia da aver bisogno di un’ulteriore specificazione[30]. Conformemente a tale situazione storica, anche nel testo di Marco il titolo è determinato tramite un’apposizione. Così, a parte Mc 9,41, che peraltro non tratta dell’identità del Cristo quanto di quella dei discepoli in relazione a lui, nelle altre ricorrenze il titolo subisce una sofisticazione semantica. Infatti, in Mc 8,29 la confessione di Pietro è connessa al primo annuncio della passione, morte e risurrezione; in 12,35-37 l’idea della messianicità è connessa e discussa con riferimento a «figlio di Davide»; in 13,21-22 si tratta di falsi cristi; in 14,61 il sommo sacerdote specifica l’idea incriminata di messia con quella di «Figlio del Benedetto»; in 15,32 gli schernitori precisano la loro visione messianica con l’apposizione «re di Israele». Si veda anche il titolo dove a «Cristo» (1,1) segue immediatamente «Figlio di Dio» (però ci sono problemi di critica testuale).
Da questa panoramica risulta almeno che il titolo «Cristo» non è assolutamente univoco nel testo marciano, presenta una notevole ampiezza semantica, e il suo uso non è esclusivo né quanto a significato né quanto a referenti! Pur essendo questo titolo poco preciso, si deve però aggiungere che certamente Gesù è il Messia-Cristo, ma secondo il pensiero di Dio; tale designazione non è quindi esaustiva della personalità di Gesù e del suo destino, e il protagonista stesso non la assumerà come esclusiva[31].
Parlando di come gli uomini interpretano l’identità di Gesù andrebbero prese in considerazioni le opinioni di tanti personaggi minori, che si recano da lui per essere guariti dai loro mali o liberati da spiriti impuri. Essi chiaramente riconoscono in Gesù un guaritore potente e un formidabile esorcista. La narrazione però pare utilizzare questi brani per sottolineare il potere salvifico del protagonista, unitamente alla possibilità che l’uomo ha di aver fede in lui. Anzi, anche i titoli di cui abbiamo parlato in questo paragrafo (maestro, figlio di Davide, re, profeta, Cristo) sono utilizzati per parlare delle relazioni fra Gesù e gli uomini, ripresi dall’Antico Testamento e modificati dall’incontro con la storia singolare del protagonista. Così essi non contribuiscono tanto ad approfondire l’identità di Gesù, quanto a mostrare la sua competenza e, per contrasto, a rilevare le mancanze degli avversari e l’indurimento dei discepoli.
Abbiamo visto che il contenuto del segreto concerne l’identità di Gesù in quanto Figlio di Dio (livello dell’essere), perché solo questo titolo presenta le caratteristiche gemelle di segreto e identità[32]. Però c’è una dimensione del segreto che riguarda l’agire di Gesù, in particolare il suo cammino di passione, morte e risurrezione.
La prima osservazione da fare a questo proposito è che tutte le predizioni della passione e risurrezione avvengono in scene private, riservate ai discepoli o solo ad alcuni di loro, e circondate da un alone di incomprensione[33]. Lo stesso discorso della risurrezione resta per loro oscuro (cf. 9,10). Inoltre, come abbiamo già mostrato sopra, tra i discepoli non si nota alcun segno di accoglienza di questo cammino di Gesù, anzi questo è uno dei luoghi in cui emerge l’ostinazione e l’indurimento di cuore dei discepoli (cf. sopra, dove si è descritto il conflitto fra Gesù e i discepoli).
È molto importante, giunti a questo punto dell’analisi, considerare che Gesù insegna ai discepoli «la sua via». Questo dato è sottolineato dalla constatazione che, a fronte di numerose presentazioni di Gesù nell’atto di insegnare, quasi non si sappia nulla di ciò che egli insegni. La prima volta che il lettore incontra il verbo «insegnare (dida,skw)» seguito da un contenuto è in occasione della prima predizione della passione, quasi a sostenere che nel vangelo secondo Marco il contenuto proprio dell’insegnamento di Gesù è la sua via[34]!
Ripetutamente Gesù tenta di rendere partecipi i discepoli del mistero di questa via, ma tutte le volte essi reagiscono in modo incongruo; dopo la reazione sbagliata dei discepoli Gesù rinnova loro la chiamata e l’insegnamento. Prima di Pasqua però per l’uomo non è possibile seguire il cammino di Gesù: in prossimità della passione qualcuno lo tradirà, qualcuno lo rinnegherà, tutti fuggiranno[35].
L’oggetto o il contenuto del segreto messianico quindi, individuato con criteri narrativi, ricopre l’identità di Gesù in quanto Figlio di Dio (livello dell’essere), ma anche la sua missione-via, il suo destino di passione, morte e risurrezione (livello dell’azione). Sarà fondamentale mantenere unite queste due dimensioni del segreto, per comprenderne la funzione e riconoscere quando essa possa essere svelato.
Il segreto narrativo non va quindi confuso con un atteggiamento schivo e riservato da parte di Gesù, che tenta di rimanere nascosto e chiede di non divulgare i suoi gesti. Questo atteggiamento del protagonista fa contrasto con la diffusione della sua fama di taumaturgo e maestro ed esalta la descrizione della sua capacità di attirare le folle e della sua disinteressata dedizione al ministero. In questo contesto possiamo inserire il caso della risurrezione della figlia di Giairo a cui si accennava all’inizio. Gesù afferma che la bambina «non è morta ma dorme» non perché sia un miglior diagnostico (e a distanza) rispetto a coloro che hanno portato al padre la notizia della morte, ma per tentare di mantenere segreto il suo miracolo, coerentemente con il suo atteggiamento e con l’ammissione di pochi testimoni.
Si può intuire come il cammino del discepolo sia connesso al segreto messianico, giacché l’oggetto dell’indurimento dei discepoli e il contenuto del segreto messianico determinato narratologicamente è significativamente identico: entrambi concernono il cammino nascosto del Figlio di Dio sia a livello dell’identità sia dell’azione.
Allo stesso tempo si constata come l’aspetto del segreto messianico che riguarda l’agire di Gesù, o meglio il suo patire, coinvolga anche il conflitto con le autorità. Infatti il destino di passione e morte che attende Gesù a Gerusalemme richiede l’esecuzione del piano di eliminazione da parte dei suoi avversari; anzi questo scontro con esito mortale è previsto come elemento proprio di un cammino che è il centro dell’insegnamento da parte di Gesù ai discepoli. Inoltre abbiamo mostrato che anche per gli avversari l’identità di Gesù, benché dichiarata in modo parabolico (12,6) ed esplicitamente al processo (14,62), resta oscura, rifiutata addirittura come bestemmia (cf. la condanna espressa dal sommo sacerdote in 14,63-64) e non più presa in considerazione negli scherni sotto la croce.
Nel segreto messianico confluiscono così i due conflitti maggiori della storia, quello fra Gesù e i suoi avversari e quello con i discepoli; analogamente in esso giungono a incontrarsi per offrire una possibilità di scioglimento anche le tensioni fra l’identità di Gesù, nascosta agli attori ma non al lettore, e il suo concreto cammino di derelizione.
L’interesse cristologico dell’opera per l’identità del protagonista e la necessaria corrispondente attenzione del lettore sono evidenti, imposti anche dalla presenza delle domande su Gesù e dalla loro distribuzione nel testo.
Tutta la prima parte del racconto è contraddistinta da numerose domande circa l’identità di Gesù (cf. 1,27; 2,7; 4,41; 6,2-3). Esse non trovano risposta da parte degli attori, ma il lettore è stato preparato dall’introduzione e può offrire a tali quesiti la soluzione rivelata da Dio (è il Figlio di Dio). Ad assicurare il lettore della correttezza di questa soluzione intervengono le grida demoniache, che, in significativa alternanza con le domande degli uomini, ricordano quale sia la risposta corretta (cf. 1,24.34; 3,11; 5,7).
Anche la seconda metà del testo però inizia con una provocante domanda di Gesù nei pressi di Cesarea di Filippo («La gente chi dice che io sia?», 8,27), a cui segue un primo riconoscimento («Tu sei il Cristo», 8,29) e la dichiarazione divina (9,7), e termina con la decisiva ed esplicita domanda del sommo sacerdote («Tu sei il Cristo, il Figlio del Benedetto?», 14,61), seguita dall’unica risposta in tutto il processo giudaico da parte di Gesù («Io sono», v. 62) e dalla dichiarazione del centurione (15,39).
Quando, dunque, l’identità di Gesù diventa accessibile a qualche uomo? c’è un momento del racconto in cui il fatto che egli sia il Figlio di Dio è dichiarato e non solo rifiutato? Si pensa subito alla confessione del centurione, ma anch’essa va contestualizzata.
Richiamiamo il percorso di Gesù fino alla croce. Anche se apparentemente riceve una buona accoglienza nella sua Galilea, gli sforzi umani per penetrare la sua identità non danno un esito soddisfacente agli occhi del lettore: nessun uomo giunge a dire di lui quanto ha dichiarato Dio. Più aumenta la grandezza dei miracoli (esorcismo di una legione intera di demoni, risurrezione di una bambina, cf. c. 5), più cresce il rifiuto (lo pregano di allontanarsi dalla loro regione). Addirittura quando giungerà nella propria patria si manifesterà l’incredulità dei suoi connazionali, i quali, benché muniti di dati anagrafici non a disposizione del lettore, non riusciranno a spiegare la competenza di Gesù su miracoli e sapienza (cf. 6,1-6).
Le cose peggioreranno in Giudea, la terra dei suoi avversari. Lì Gesù incontrerà l’esplicita opposizione dei capi del popolo, che concretizzeranno il loro progetto di morte, senza che nel frattempo i discepoli di Gesù siano riusciti a penetrare l’identità del loro maestro, nonostante le più alte rivelazioni (9,7). Il lettore però comprende che Gesù, sapendo di essere il Figlio unico di Dio, ha percorso fino a questo punto quella via che gli era stata preparata e di cui si parlava nella citazione iniziale. Ha contemplato l’umiltà e l’obbedienza di Gesù, che si è sottoposto a questo cammino, anche con l’orrore e l’angoscia di ciò che lo attende (l’angoscia che fa sentire soli, secondo l’etimologia del verbo greco avdhmonei/n, cf. 14,33), fino al grido sulla croce che attesta della verità di questo cammino e della fedeltà di Gesù («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato»: 15,34, sottolineato nel testo dalla presenza della versione in aramaico tradotta poi in greco).
Questo grido, e più ampiamente questa morte, pone agli occhi del lettore in modo esplicito la questione cristologica: che cosa vuol dire che Gesù è il Figlio di Dio, se muore così sulla croce? Del resto tale questione risuona in un più ampio problema teologico: che cosa vuol dire, di fronte alla croce, che Dio è Padre di Gesù? In effetti l’interpretazione trionfalistica della messianicità supposta dagli avversari richiederebbe che Gesù si salvasse, scendesse dalla croce, «affinché vediamo e crediamo» (cf. 15,29-32). Ma Gesù non scende dalla croce e proprio per questo il capo del plotone di esecuzione, «vedendolo morire così», esclama: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio» (15,39).
È la prima volta che un personaggio umano esprime l’identità di Gesù con i termini usati da Dio, condivisi da Gesù e dal narratore. Si tratta di un segnale chiaro per il lettore affinché capisca quando è possibile confessare Gesù come Figlio di Dio: solo dopo aver visto l’intero percorso della sua via, dopo aver visto il cammino di umiliazione a cui si è sottoposto, si può riconoscere che egli è il Figlio di Dio. Così il racconto evangelico permette di dare un contenuto al titolo centrale «Figlio di Dio» a partire dalla storia di Gesù di Nazaret, in altre parole permette di comprendere che cosa significa per lui essere Figlio, evitando qualsiasi interpretazione trionfalistica e terrena del suo messianismo, e centrando piuttosto l’attenzione sulla sua relazione con Dio, colui che gli è Padre (il titolo è corrispettivo di Figlio).
Questa relazione con il Padre è particolarmente messa in evidenza dalla narrazione marciana. Essa emerge già nella citazione iniziale (1,2-3) attraverso la presentazione del dialogo fra Dio e il «tu» che gli è interlocutore. Prosegue nel racconto della manifestazione «segreta» (solo per il lettore), dopo il battesimo, del contenuto di questa relazione, che la voce dei cieli identifica con la figliolanza divina di Gesù (1,11); contestualmente è presentata anche la competenza che tale identità comporta. Tutto ciò è mantenuto nascosto agli attori umani del racconto e Gesù percorre non riconosciuto e senza voler farsi riconoscere la propria via, mostrando così al lettore la verità del suo percorso e della sua relazione con Dio fino alla croce. Qui, con coerenza narrativa, Marco non presenta parole di Gesù rivolte agli uomini (discepoli, avversari, aguzzini), ma solo a Dio (cf. 15,39): così è posta nuovamente in evidenza proprio quella relazione fondamentale per il protagonista, l’unica che gli interessi sino alla fine[36].
Non intendiamo dire che Marco trascuri l’aspetto soteriologico della morte di Gesù, il «per noi» della sua Pasqua: era stato già dichiarato in anticipo che sarebbe avvenuta per il riscatto dei molti (cf. 10,45) e in occasione dell’ultima cena, descritta in contesto pasquale, si è alluso chiaramente a una consegna di Gesù ai suoi e a un’alleanza stabilità nel suo sangue (cf. 14,22-24). La questione però posta in gioco nel modo con cui Marco racconta la croce è piuttosto l’identità di colui che muore: beffeggiato come messia e re di Israele (o dei Giudei, secondo il cartiglio appeso alla croce: 15,26), abbandonato da tutti secondo le modalità del giusto sofferente di cui narrano i salmi[37], rifiutato dai suoi come i profeti, in realtà Gesù è il Figlio di Dio che completa il percorso della sua via[38].
Al grido di Gesù e alla sua morte fa seguito un grande silenzio, in cui la confessione del centurione risuona in modo ancor più critico: che ne è della relazione fra Gesù e Dio, quella relazione per cui egli è il Figlio prediletto?
Alcuni esegeti hanno notato che la confessione del centurione («Veramente quest’uomo era Figlio di Dio», 15,39), per quanto sia corretta, presenta una caratteristica problematica dovuta al tempo passato del verbo: è detto, infatti, «era», mentre una professione cristiana dovrebbe essere formulata con il tempo presente, «è Figlio di Dio». Questa incongruità è stata spiegata in modi diversi. Qualcuno ha rilevato a partire dal contesto che di fronte a un morto il tempo verbale non poteva essere che quello passato, con il possibile significato positivo di retroproiettare questo riconoscimento all’intero cammino anteriore di Gesù. Altri hanno fatto riferimento alla circostanza storica ossia alla condizione del locutore: è un pagano, il capo del plotone di esecuzione; ora un ufficiale dell’esercito romano poteva dare al titolo «Figlio di Dio» un significato più «basso» di quello inteso dalle comunità cristiane, indicante un uomo di notevole valore, nell’orizzonte dell’uomo divino o del culto dell’imperatore, diffuso fra le fila dell’esercito romano.
Entrambe le soluzioni non colgono appieno il senso di questa affermazione, poiché non tengono conto dello scarto che può esserci tra livello diegetico (le vicende e i personaggi, con quanto essi possono comprendere) e livello extradiegetico (il rapporto fra autore e lettore, quanto il lettore può comprende). Si può sostenere che all’interno della storia narrata da Marco il «personaggio» del centurione abbia tenuto in considerazione il fatto che Gesù fosse ormai morto; è pure possibile ipotizzare che la «persona» storica del centurione all’epoca dei fatti possa aver conferito a tale titolo (ammesso che lo abbia utilizzato) un significato «basso»[39]. Però, per quanto riguarda la dinamica della narrazione, bisogna convenire che a livello extradiegetico, all’atto cioè della lettura, il lettore non può fare a meno di riconoscere che si tratta della prima volta in cui un essere umano esprime l’identità di Gesù con le stesse parole usate da Dio (cf. 1,11; 9,7), dai demoni, dal narratore (cf. 1,1, pur con le cautele per la ricostruzione del testo) e da Gesù stesso (cf. 12,6; 14,61). Pertanto, il significato di confessione narrativa di tale atto non sfugge al lettore attento: egli riconosce che qui la narrazione pone in connessione l’aspetto concernente l’identità del segreto messianico (Gesù è il Figlio di Dio) con l’aspetto di azione del medesimo segreto (vedendolo morire così...), fornendo pertanto la possibilità di comprendere quando il segreto messianico possa essere svelato, cioè solo dopo la morte di Gesù o, meglio ancora, dopo l’intero percorso della sua via.
La croce è così il momento di verità della via di Gesù (muore davvero) e della sua identità. Però la sua via non è ancora terminata: la croce o la tomba. Infatti. non sono la meta di questa via. Tenendo in considerazione questo dato può essere spiegato in modo narrativo il senso di parzialità o di insufficienza della confessione del centurione. A questo punto della vicenda manca ancora qualcosa, perché si possa affermare con sicurezza che il segreto è stato svelato: manca la risurrezione!
Questo elemento della vita di Gesù è fondamentale e decisivo. Si comprende quanto sia riduttivo parlare delle «predizioni della passione» senza considerare la risurrezione, la quale invece dal punto di vista testuale è sempre coordinata alle prime. In effetti non solo le tre predizioni classiche (8,31; 9,31; 10,33-34) contengono sempre gli elementi di passione, morte e risurrezione, ma anche tutte le altre volte in cui c’è un accenno alla passione si presenta contestualmente un riferimento alla risurrezione. Dopo la trasfigurazione il richiamo alla passione e al disprezzo che dovrà subire il Figlio dell’uomo in 9,12 è preceduto dal riferimento alla sua risurrezione dai morti (v. 9). L’uccisione del Figlio nella parabola dei vignaioli (12,8) è seguita dalla citazione salmica della pietra che diventa testata d’angolo (vv. 10-11). All’annuncio del tradimento di Giuda e alla rivelazione che Gesù non berrà più del frutto della vite (14,18-21.25a) fa seguito la profezia della sua partecipazione futura al regno di Dio (v. 25b). Infine. alla citazione sul pastore percosso e sulle pecore disperse (14,27) segue la promessa da parte di Gesù di precedere i discepoli dopo la sua risurrezione (v. 28). La coerenza di questo motivo è impressionante e impone di attendere nella narrazione il compimento di esso.
In effetti, solo con la risurrezione Dio si mostrerà appieno come Padre, capace di dare la vita in modo inaudito, e corrispettivamente Gesù potrà essere riconosciuto come colui che riceve questa vita in modo unico, il Figlio. Solo con l’annuncio della risurrezione sarà possibile comprendere che il cammino di Gesù è giunto alla meta, rendendo persino la tomba luogo di passaggio. La risurrezione manifesta che la relazione con Dio, che ha condotto, sostenuto e motivato Gesù nella sua via è sempre viva, in termini narrativi costituisce la risposta più esauriente al grido di Gesù sulla croce. La risurrezione indica che anche la relazione fra Gesù e i discepoli è ancora possibile, perché egli è di nuovo al suo posto, davanti ai discepoli, a indicare e condurre il cammino (cf. l’annuncio dell’angelo in Mc 16,7: «Dite ai suoi discepoli e a Pietro che vi precede in Galilea...), un cammino che la tomba non può ostacolare.
A livello diegetico troviamo un chiaro segnale della correttezza di questo percorso interpretativo: dopo la trasfigurazione, quando ad alcuni discepoli è stato presentato il mistero dell’identità di Gesù come Figlio di Dio, Gesù impone loro di «non raccontare a nessuno ciò che hanno visto, se non quando il Figlio dell’uomo sia risorto dai morti» (9,9)! Il narratore conferma che essi rispettarono il mandato, perché solo dopo la risurrezione di Gesù, in pratica nel tempo del lettore, potrà essere annunciato che egli è il Figlio di Dio (cf. 9,7)[40].
Solo
dopo la risurrezione un uomo potrà confessare pienamente che Gesù è
il Figlio di Dio, e sotto questa prospettiva si comprende come nella scena
del centurione ai piedi della croce la confessione vera non sia a livello
intradiegetico, bensì extradiegetico, riguarda l’autore e il lettore (1,1 e
l’intera narrazione)[41].
A causa della distinzione fra livello intradiegetico e livello extradiegetico,
ciò che comprendono i personaggi non rappresenta necessariamente il punto di
vista normativo del racconto:
la corretta interpretazione non
appartiene al locutore (livello diegetico), ma
al lettore (livello extradiegetico).
Così solo nel «tempo» extradiegetico dopo Pasqua, il tempo del lettore, può
essere svelato o annunciato tutto il segreto messianico connesso all’identità
del Figlio, ossia quando si può narrare la morte e
risurrezione di Gesù (cf. 9,9!)[42].
Sarebbe
ancora troppo poco, ancorché corretto, dire che la scena della tomba vuota
stimola ogni lettore ad annunciare[43].
Bisogna apprezzare il contributo di questa porzione di storia, così che anche
la questione «teologica» sollevata dalla morte di Gesù sia risolta
diegeticamente dall’istanza superiore della storia, colui che la conduce e
che rappresenta il punto di vista normativo: Dio Padre.
Qualcuno
argomenta che lo squarcio del velo del tempio in Mc 15,38 rappresenta già un
intervento di Dio, e che tale evento è in relazione alla scena della
purificazione del tempio (11,15-18) e all’accusa di voler distruggere il
santuario per edificarne un altro (14,58). Ci pare di poter consentire
all’esistenza di rapporti fra queste scene, che permettono di intuire anche
un’interpretazione della relazione fra corpo di Gesù e tempio, ma dobbiamo
comunque constatare un’incompleta realizzazione di tale «profezia»: il
tempio antico è distrutto, come il corpo di Gesù, ma sulla croce non se ne
presenta esplicitamente uno nuovo. Mancano infatti ancora «tre giorni» (cf.
14,58)!
Con
la risurrezione è portata a termine la caratterizzazione di Gesù connessa al
suo cammino, nel senso che una voce (il giovane di 16,1-8) annuncia il
compimento da parte di Dio della sanzione espressa dalla voce dal cielo (1,11;
9,7): Dio si mostra Padre dando la vita e colui che riceve tale vita può
essere confessato Figlio di Dio. Accade nella storia di Marco quanto deve
essere avvenuto agli inizi della riflessione dei credenti: proprio l’evento
pasquale della morte e risurrezione ha introdotto i primi cristiani nel
mistero delle relazioni fra Dio Padre e Gesù, come testimoniano alcune
antiche confessioni quali quella presente nella tradizione di Rm 1,3-4[44].
La funzione del conflitto con le autorità è quindi di premettere la realizzazione narrativa di quella parte del segreto che riguarda l’azione di Gesù, meglio ancora, la sua passione, il percorso della sua via. Questa però è più ampia, inizia prima del conflitto, anzi trae origine nel disegno stesso di Dio, come dimostra la citazione iniziale; dall’altra parte della linea cronologica con la risurrezione Dio stesso mostra di prendere parte nel conflitto a favore di Gesù e di farne proseguire la via ben al di là del punto in cui gli uomini potevano condurla, oltre la tomba! In altre parole, il conflitto con gli avversari, come è stato annunciato da Gesù, fa parte del misterioso piano di Dio, della via che Gesù deve percorrere, è in essa incluso.
Il conflitto con i discepoli è poi connesso a quello con gli avversari, per mostrare quanto sia difficile al discepolo (all’uomo) giungere a conoscere l’identità di Gesù e accogliere la sua via (pensare le cose di Dio). Anch’esso è quindi inserito all’interno del cammino di Gesù, ma in modo da lasciare a Gesù l’iniziativa: questo versante del conflitto rivela così più chiaramente la finalità positiva, l’aspetto salvifico della via di Gesù: la manifestazione del Figlio agli uomini e la loro salvezza attraverso la sua Pasqua. Infatti, l’annuncio della sua risurrezione è l’annuncio di una rinnovata ricerca dei discepoli da parte di Gesù, che così continua, dopo la sua morte e oltre la sua morte, quella ricerca con la quale era iniziata la sua attività in Galilea (cf. 1,16-20).
Dunque nella Pasqua di Gesù trovano culmine e risoluzione entrambi i conflitti ed è così svelato il segreto messianico: Gesù è il Figlio di Dio che doveva patire, morire e risorgere. Senza invadere l’argomento di altri articoli di questo volume, ci pare di sottolineare che in questo cammino non si mostra solo quando è possibile confessare Gesù come Figlio (dopo la risurrezione, ossia tenendo in considerazione l’intera sua via), ma anche si apre uno spiraglio nel mistero espresso con il titolo «Figlio».
Il fatto che esso sia riservato solo a Gesù, che esprima la sua identità più profonda e che sia connesso alla sua via terrena ci spinge a riflettere anche sul contenuto a cui la narrazione allude. Esso manifesta essenzialmente una relazione, quella con Dio, chiamato corrispettivamente «Padre», relazione che sostanzia e motiva il cammino e che «si manifesta» eminentemente nell’atto della risurrezione. Ci pare che il titolo sia da considerare, prima e più ancora che sullo sfondo di tipologie veterotestamentarie, che nella narrazione di Marco mostrano tutta la loro insufficienza, come rappresentativo di una relazione, della quale però non ci è detto tutto. È significativo che non ci sia una descrizione della risurrezione, ma «solo» l’annuncio di essa; altrettanto importante è che nel racconto non siano comprese le manifestazioni del risorto. Ciò che Marco racconta al suo lettore è la dedizione di Gesù al Padre, la sua via percorsa sino alla fine e nella verità, ma gli inizi e la fine di questa via si perdono nella relazione con il Padre, con il rispetto della trascendenza divina nella forma della invisibilità[45].
La relazione fra Gesù, il Figlio, e Dio, il Padre, viene però annunciata, si mostra come essa traspaia nella storia di Gesù e come possa coinvolgere i discepoli, chiamati a percorrere questa sua via fino alla vita. Possiamo così concludere che, anche se il segreto è svelato, il mistero rimane, un mistero che però è consegnato agli uomini che accolgono Gesù: «A voi [discepoli e lettori] è dato il mistero del regno di Dio» (Mc 4,11).
Sembra che agli occhi dell’autore del nostro vangelo vi sia una profonda analogia fra il modo con cui Gesù cammina non visto davanti al discepolo post-pasquale e quello con cui Gesù camminava, non riconosciuto, nelle strade della Palestina. Questo «modo», che potremmo definire di «rivelazioni segrete» o di «manifestazioni oscure», è anche quello che il narratore ha assunto per il suo racconto. È la stessa «forma» della via di Gesù che diventa il «criterio con cui annunciare che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio» (secondo una possibile traduzione del primo versetto, Mc 1,1). Così la storia di Gesù, oltre a trasfigurare i titoli e le tipologie dell’Antico Testamento, oltre a interpretare le Scritture, è anche l’inizio del vangelo e il principio dell’annuncio.
Marco
Vironda
Dopo aver mostrato che la modalità comunicativa e la natura letteraria del vangelo secondo Marco situano questo testo biblico fra le opere di narrativa, si procede nell’analisi della strutturazione del racconto, indicando quali siano i principali conflitti che ne animano la trama: quello fra Gesù e gli avversari e quello fra Gesù e i discepoli. Prendendo avvio dallo studio dei versetti introduttivi della narrazione, se ne evidenzia l’interesse cristologico e la particolare collocazione del lettore in una posizione privilegiata. Si mostra poi come i conflitti, pur nella diversa loro natura, siano connessi attraverso una caratteristica del vangelo marciano, il segreto messianico. Si determina quindi il contenuto del segreto con criteri narrativi, riconoscendo in esso un elemento legato all’identità del protagonista (Gesù è il Figlio di Dio) e un elemento attinente al suo agire (passione, morte e risurrezione). La funzione del segreto è connettere l’identità di Gesù con la sua storia, mostrando che la confessione dell’identità di Figlio di Dio è possibile solo tenendo in considerazione l’intera sua «via».
Aguirre
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van Iersel, B.M.F., Leggere Marco, Paoline, Cinisello B. (MI) 1989; Id., Marco La lettura e la risposta. Un commento, Queriniana, Brescia 2000.
[1]
Cf. J.
Delorme, Évangile et récit.
La
narration évangelique en Marc,
«New Testament Studies» 43
(1997) 367, n. 2; cf. anche A.
Marchese, Dizionario
di retorica e di stilistica. Arte e artificio nell’uso delle parole.
Retorica, stilistica, metrica, teoria della letteratura, Milano 19914,
pp. 81-82.
[2]
La citazione è tratta da G. Prince,
Narratology. The
Form and Function of Narrative,
Berlin - New York - Amsterdam 1982, p. 4 (tr. it. disponibile). Evidentemente
tali situazioni non devono essere implicate logicamente l’una nell’altra
(del tipo: Carlo uscì dalla stanza, quindi non era più nella stanza),
altrimenti la sequenza non sarebbe «temporale». Cf. più ampiamente la
sintetica introduzione di H. Grosser,
Narrativa. Manuale/Antologia,
Milano 1985, pp. 1-4, e A. Marchese,
L’officina del racconto.
Semiotica della narratività, Milano 1983. Sul racconto nella
letteratura antica cf. E. Norden,
La prosa d’arte antica. Dal VI
secolo a.C. all’età della rinascenza, vol. II, Roma 1986. Riflessioni
strutturali sul tempo nel racconto in C.
Segre, Le strutture e il
tempo. Narrazione, poesia, modelli, Torino 1974, in particolare pp.
3-41; P. Ricoeur, Temps
et récit, Paris 1983, 1985 (tr. it. disponibile); M.A.
Powell, What is Narrative
Criticism? A
New Approach to the Bible,
Minneapolis MN - Cambridge 1993, c. 7.
[3]
Cf. R. Scholes - R. Kellog, The
Nature of Narrative, New York 1966, p. 4 (più ampiamente pp. 3-16;
anche questo testo è disponibile in traduzione italiana). Per la
descrizione dell’arte drammatica e in particolare della tragedia cf. Aristotele,
Dell’arte poetica, Milano 19906,
3,2. Però anche nella tragedia ci sono interventi narrativi (nel prologo o
nelle parole dei personaggi), e l’intera composizione «racconta», pur
nel modo più mimetico tipico dell’arte drammatica.
[4]
Tra le molte opere che hanno mostrato questi elementi in Marco ricordiamo a
titolo esemplificativo J.R.
Donahue, Are
You the Christ? The
Trial Narrative in the Gospel of Mark,
Missoula MT 1973,
pp. 227-228; N.
Petersen, Point of View in
Mark’s Narrative, in «Semeia» 12 (1978) 97-121; R.C.
Tannehill, The Gospel of
Mark as Narrative Christology, in «Semeia» 16 (1979) 57-95; D.
Rhoads, Narrative Criticism
and the Gospel of Mark, in «Journal of the American Academy of Religion»
50 (1982) 411-434; S.D. Moore,
Are the Gospels Unified Narratives?, in K.H.
Richards (ed.),
Society of Biblical Literature 1987 Seminar Papers, Atlanta GA
1987, pp. 443-458; R.
Vignolo, Una finale
reticente. Interpretazione narrativa di Mc 16,8, in «Rivista Biblica»
38 (1990) 129-139; E.K. Broadhead,
Prophet, Son, Messiah: Narrative Form
and Function in Mark 14-16, Sheffield 1994, cap. 1 e pp. 281-282;
E.S. Malbon,
Narrative Criticism: How Does the Story mean?, in J.C.
Anderson - S.D. Moore (edd.), Mark
& Method. New
Approaches in Biblical Studies,
Minneapolis MN 1992,
pp. 23-36; J.-N. Aletti, L’approccio
narrativo applicato alla Bibbia: stato della questione e proposte, in «Rivista
Biblica» 39 (1991) 257-276 e la discussione sulla natura letteraria dei
vangeli in Id., Le Christ
raconté. Les
Évangiles comme littérature?,
in F. Mies (ed.)
Bible et Littérature. L’homme et Dieu mis en intrigue, Bruxelles
1999, pp. 29-53; U.
Kmiecik, Der
Menschensohn im Markusevangelium,
Würzburg 1997, pp. 15-25; D.
Rhoads - J. Dewey - D. Michie, Mark
as Story. An
Introduction to the Narrative of a Gospel. Second
Edition,
Minneapolis MN 1999,
pp. 3-4 e in generale l’intera opera. Molti studiosi non affrontano
direttamente la dimostrazione della natura narrativa di Marco, ma,
applicando uno studio narrativo, ne mostrano i vantaggi e conseguentemente
ne dimostrano la natura.
[5]
Cf. Rhoads
- Dewey - Michie, Mark
as Story, cit., p. 3.
[6]
Per il concetto di letteratura come descrizione di un mondo o re–praesentatio
cf. E. Auerbach, Mimesis.
Dargestellte
Wirklichkeit in der abendländischen Literatur,
Bern 1946 (disponibile in it.). Sul
rapporto fra l’approccio narrativo, l’esegesi e la teologia cf. J.L.
Ska, La nouvelle critique et l’exégèse anglo-saxonne, in
«Revue des sciences religieuses (= RSR)» 80 (1992) 43-46; J.-N.
Aletti, Exégèse biblique
et sémiotique, in RSR 80 (1992) 12-18.23-28; e ancora Vignolo,
Una finale reticente, cit., pp. 131-139 per la funzione «integrativa»
di questo approccio rispetto a quello più tradizionale storico-critico.
[7]
Il riferimento classico alla distinzione fra
storia (il che cosa) e discorso (il come) è S.
Chatman, Story
and Discourse. Narrative
Structure in Fiction and Film,
Ithaca NY - London 1980, pp.
19-20 (tr. it. disponibile). Peraltro
è importante ricordare che questa distinzione è solo formale, perché gli
eventi e i personaggi non sono accessibili se non come
sono narrati, solo in seguito si potrà intervenire su di essi con la
riflessione.
[8]
U. Eco, Lector
in fabula. La cooperazione
interpretativa nei testi narrativi,
Milano 19832, p. 54 (corsivo del testo) o più ampiamente
pp. 50-66, dove discute i «doveri» del lettore.
[9]
Cf. per es. Chatman,
Story and Discourse, cit., pp.
147-151.196-262; Powell, What
is Narrative Criticism?, cit., p. 27. Le
istanze diegetiche [ciò
che appartiene alla storia raccontata, (NdR)]
menzionate sopra sono utili per distinguere, laddove si rendesse necessario,
la voce che racconta dalle scelte dell’autore. Così si parla di «autore
implicito» per indicare la ricostruzione dell’autore attraverso il
processo di lettura, il principio delle scelte narrative nei confronti della
trama, dei personaggi e del lettore stesso, colui che stabilisce le norme
del racconto; nel caso della letteratura evangelica narratore e autore
implicito coincidono, almeno a livello di racconto primario, giacché
possiamo avere anche narratori in metadiegesi (il racconto nel racconto, per
es. Gesù che narra una parabola). Al narratore e all’autore implicito
corrispondono il narratario e il lettore implicito: il narratario è colui a
cui si rivolge il narratore, può essere anche un personaggio, mentre il
lettore implicito è l’audience
presupposta dalla narrazione, il principio delle operazioni di
interpretazione postulato dall’autore implicito. Autore implicito,
narratore, narratario e lettore implicito sono parte del testo, mentre agli
estremi della comunicazione, ma fuori dal testo, ancorché presupposti per
la comunicazione, stanno l’autore reale e il lettore reale.
[10]
Cf. B. van
Iersel, Locality, Structure
and Meaning in Mark, in «Linguistica Biblica» 53 (1983) 45-54;
l’autore è tornato su questo schema, sviluppandolo ulteriormente, in B.
van Iersel, Markus, Boxtel
1986 (tr. it. Leggere Marco,
Cinisello B. [MI] 1989) e in Id.,
Mark. A
Reader-Response Commentary,
Sheffield 1998 (tr. it. Marco
La lettura e la risposta. Un commento,
Brescia 2000).
[11]
Sulla «via» nel vangelo secondo Marco cf. E.
Manicardi, Il
cammino di Gesù nel vangelo di Marco. Schema narrativo
e tema cristologico, Roma
1981.
[12]
Per la critica testuale, conflare
(dal latino conflare, fondere,
aggiungere per fondere; e dall’inglese conflate)
significa una mistura o una combinazione di racconti provenienti da due o più
fonti/documenti, che formano un nuovo testo/racconto. Conflazione è
l’atto o il risultato del conflare [NdR].
[13]
La differenza con altre narrazioni evangeliche è impressionante. In Mt
3,14-15 viene presentato un dialogo fra Giovanni e Gesù in cui il
precursore mostra di avere consapevolezza dell’identità di colui che si
accosta al suo battesimo e la voce dal cielo in Mt 3,17 parlando di Gesù
alla terza singolare conferma la posizione di Giovanni, se non parla per un
uditorio ancora più ampio. Nel vangelo secondo Giovanni il Battista
riconosce e indica ai discepoli l’Agnello di Dio (Gv 1,29.36), sa che Gesù
è colui che deve seguirlo (Gv 1,30), egli solo è testimone della discesa
dello Spirito su Gesù (Gv 1,32-33) e addirittura non la voce da cielo ma
Giovanni Battista lo dichiara Figlio di Dio (Gv 1,34).
[14]
Corrispettivamente possiamo comprendere meglio il ruolo del participio «scendente
(katabai,non)»
riferito allo Spirito. Poiché in greco il participio presente indica un
processo continuo, forse non si vuole segnalare il momento iniziale in cui
lo Spirito scese su di lui, ma che su questo personaggio scendeva
(continuamente) lo Spirito.
[15]
Dietro alla parola italiana «messaggero» di 1,2 e a «angeli» di 1,13
c’è infatti lo stesso termine greco «a;ggeloj».
[16]
Cf. D.
Rhoads - D. Michie, Mark
as Story. An Introduction to the Narrative of a Gospel, Philadelphia PA
1982, p. 73. Sull’importanza
del conflitto all’interno del racconto marciano cf. Ibid.,
pp. 73-100 e nella nuova edizione Rhoads
- Dewey - Michie, Mark
as Story, cit., pp. 77-96, con gli utili rimandi bibliografici;
si veda anche J.D. Kingsbury,
Conflict in Mark.
Jesus, Authorities, Disciples,
Minneapolis MN 1989, pp. 2-29 e passim;
van Iersel,
Leggere Marco, cit.
[17]
Che accade una volta sola, è narrato una volta [NdR].
[18]
Però nella dinamica narrativa di Marco l’immediata risposta dei discepoli
alla chiamata di Gesù (1,18.20; 2,14; 3,13; 6,12) è un dato che sottolinea
piuttosto il potere strabiliante della parola di Gesù più che
un’indicazione biografica sui discepoli.
[19]
Inoltre, storicamente il titolo «Cristo» occupava una spettro semantico
tanto ampio da richiedere un’ulteriore precisazione di significato, spesso
realizzata tramite l’aggiunta, di gusto tipicamente semitico,
dell’espressione «figlio di». Si poteva così parlare, per esempio, di
un Messia figlio di Davide o di un Messia figlio di Aronne. Il nostro testo
specificherà l’identità di questo Messia parlando del Cristo Figlio di
Dio-del Benedetto.
[20]
Si viene così a creare una triplice serie di tre elementi: gli annunci
della passione, morte e risurrezione, a cui seguono tutte le volte reazioni
negative dei discepoli e nuovi insegnamenti di Gesù (prima serie: 8,31;
8,32-33; 8,34-9,1; seconda serie: 9,31; 9,32-34; 9,35-50; terza serie:
10,32-34; 10,35-40; 10,41-45). Su ciò cf.
K. Stock, Il
cammino di Gesù verso Gerusalemme, Marco 8,27-10,52, Roma 19932;
Id., Boten
aus dem Mit-Ihm-Sein. Das Verhältnis zwischen Jesus und den Zwölf nach
Markus, Rome 1975; tali relazioni sono ormai accettate da tutti i
commentari.
[21]
Cf. 1,24.34; 3,11; 5,7, in linea con il punto di vista di Dio circa
l’essere di Gesù. Particolarmente interessante è il commento del
narratore a 1,34 (cf. anche 3,12), in cui chiarisce che l’ingiunzione del
silenzio è motivata dalla conoscenza dei demoni su Gesù, considerazione
che conferma il contenuto di tali dichiarazioni. In 1,24 Gesù è
identificato con l’appellativo «Santo di Dio», non «Figlio»: sul
significato di tale designazione non propriamente messianica si discute,
tuttavia possiamo notare come per il lettore sia comunque un rimando alla
missione in dipendenza dalla designazione di Dio (1,11), un riferimento alla
santità di Dio trasmessa con il dono dello Spirito Santo (1,8.10) che fa di
Gesù una persona consacrata al piano salvifico di Dio, costituzionalmente
opposta agli spiriti «impuri» (1,23-24), schierata dalla parte di Dio.
[22]
Si osservi che il comando a tacere di 5,43 non è violato; lo abbiamo
annoverato in questo gruppo più per l’oggetto di cui avrebbero potuto
parlare i genitori della bambina morta che per la sua trasgressione. La sua
eventuale omissione però non comporterebbe variazioni di significato, poiché
in 7,36 il narratore a mo’ di sommario presenta la sistematica violazione
di questo tipo di segreto: «Ma per quanto comandasse a loro [di non dirlo a
nessuno], quelli ancor di più lo annunciavano».
[23]
Per comodità citiamo in un’unica nota i riferimenti bibliografici
dell’intero paragrafo: W.
Wrede, Das
Messiasgeheimnis in den Evangelien. Zugleich ein Beitrag zum Verständnis
des Markusevangeliums, Göttingen 19694, pp. 9-149, in
particolare pp. 81-149; A.
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Wrede, Tübingen 1906, pp. 334-347 (coscienza esplicita di messianicità);
G. Bornkamm, Qui
est Jésus de Nazareth?, Paris 1973, pp. 193-204 (coscienza implicita di
messianicità); R. Bultmann,
Die Geschichte der synoptischen
Tradition, Göttingen 19677,
pp. 370-376; M.
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225-232; H.J. Ebeling, Das
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56 (1956) 9-30 (senza la diffusione della fama); T.J.
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fur die neutestamentliche» 59 (1968) 145-158 e Id.,
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Philadelphia PA 1971 (senza
l’incomprensione dei discepoli); H.
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Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria. II. Gli
sviluppi, Cinisello B. (MI) 1999, pp. 340-344;
G. Theissen - A. Metz,
Der historische Jesus: ein Lehrbuch,
Göttingen 19992, par. 16,
3.3 (Gesù ebbe una coscienza messianica senza tuttavia manifestarla con il
titolo corrispondente; questo testo è ora tradotto in italiano).
[24]
Occorre notare che la risposta di Gesù in Mc 14,62 «Io sono (evgw,
eivmi)» è la più
esplicita nei Sinottici, cf. Mt 26,64: «Tu lo dici (su.
ei=paj)»; Lc
22,70: «Voi dite che io sono (u`mei/j
le,gete o[ti evgw, eivmi)»,
ma anche la più sublime, giacché non è possibile che un lettore abituato
alla LXX non risenta un’eco dell’«Io sono» (evgw,
eivmi) di Dio.
[25]
Mc 1,34 è esplicito nel fornire la motivazione del silenzio imposto da Gesù
ai demoni: egli comanda loro di tacere non perché dicano menzogne, ma «perché
lo conoscevano».
[26]
Cf. per «maestro (dida,skaloj)»
4,38; 5,35; 9,17.38; 10,17.20.35; 12,14.19.32; 13,1; 14,14; per «rabbi (r`abbi)»
9,5; 11,21; 14,45 più 10,51 (r`abbouni).
Anche a questo riguardo è interessante un confronto sinottico: sia in
Matteo che in Marco dida,skaloj
ricorre 12 volte, mentre il termine ebraico r`abbi,
si trova 3 volte in Marco e 2 in Matteo; inoltre in Marco si trova anche r`abbouni
(altrove solo in Gv 20,16). Questo appellativo è quindi più frequente in
senso assoluto, e ancor più proporzionalmente, in Marco che non in Matteo,
sebbene quest’ultimo evidenzi con lunghi discorsi l’insegnamento di Gesù
fino a farne – come si suole dire – un nuovo Mosè! Il greco più
raffinato di Luca non usa il semitico r`abbi,
ma, accanto a dida,skaloj,
si trova evpista,thj,
con 20 ricorrenze complessive riferite a Gesù: si tratta comunque di una
frequenza proporzionale inferiore a quella di Marco.
[27]
Cf. 15,2.9.12.18.26, dove «re (basileu,j)»
proviene dall’autorità romana ed è specificato dal genitivo «dei Giudei
(tw/n VIoudai,wn)».
Lo si trova anche in 15,32, unica ricorrenza in bocca alle autorità
giudaiche, ma è specificato dal genitivo «di Israele (VIsrah,l)»
ed è in apposizione a «Cristo».
[28]
Così interpretano V. Taylor,
The Gospel According to St. Mark. The Greek Text with Introduction. Notes
and Indexes, London 19662, p. 579 (tr. it.); J. Gnilka,
Das Evangelium nach Markus,
Neukirchen - Vluyn 1979, vol. II,
pp. 299-300 (tr. it.), che rileva l’ambiguità del titolo; R. Pesch,
Das Markusevangelium, Freiburg
19843, vol. II, p. 457 (tr. it.), secondo cui è una
domanda con valore di negazione; C.S. Mann,
Mark. A
New Translation with Introduction and Commentary,
Garden City NY 1986,
p. 636; J.P. Heil,
The Gospel of Mark as a Model of
Action. A Reader-Response Commentary, New York - Mahwah NJ 1992,
p. 322; R.H. Gundry,
Mark.A Commentary on His Apology for
the Cross, Grand Rapids MI 1993, p. 924, per il quale c’è il
senso del rifiuto di tale designazione come proveniente da altri; S. Légasse,
L’évangile
de Marc, Paris 1997,
vol. II, p. 942
(tr. it.), meno netto.
[29]
C’è in 15,12 un problema di critica testuale. La lezione lunga «Che cosa
devo fare di colui che chiamate Re dei Giudei? (ti,
ou=n poih,sw o]n le,gete to.n basile,a tw/n VIoudai,wn)»,
secondo la quale Pilato attribuisce ai Giudei l’uso del titolo regale per
Gesù, è supportata da gran parte dei manoscritti, ma altrettanto è
attestata l’omissione di «colui che chiamate (o]n
le,gete)»,
che rende il titolo opinione di Pilato. Le più recenti edizioni critiche
seguono la lezione più lunga, segnalando però con parentesi quadre la
difficoltà di decidere. Del resto sembra che Pilato consideri l’argomento
non tanto per scrutare l’identità di Gesù quanto come accusa politica,
giunta a lui da parte dei sommi sacerdoti, cf. Taylor,
Mark, cit., p. 579; Gnilka,
Markus, II, cit., pp.
299-300; Pesch,
Markusevangelium, II, cit.,
p. 457; Mann,
Mark, cit., p. 636; Gundry,
Mark, cit., p. 924. Tale
accusa è ribadita anche nella scritta appesa alla croce (cf. v. 26).
Preferiamo pertanto la lezione più lunga.
[30]
Per una rassegna degli usi storici cf. W.
Grundmann (ed.), cri,w, cristo,j, avnti,cristoj, cri/sma,
cristiano,j, in G.
Kittel - G. Friedrich (edd.), Theologhisches Wörterbuch
zum NT, IX,
Stoccarda 1933ss, pp. 482-576 (tr. it.: Grande Lessico del Nuovo
Testamento), in particolare la sezione dedicata all’Antico Testamento
(p.p. 486-500, F. Hesse, ed.)
e alle concezioni messianiche nel tardo giudaismo (pp. 500-518, A.S.
van der Woude - M. de Jonge, ed.). Occorre aggiungere
l’interessante articolo di J.
Marcus, Mark 14:61: «Are
You the Messiah-Son-of-God?», in «Nuovo Testamento» 31 (1989)
125-141, in particolare le pp. 130-135 dove l’autore dimostra che il
titolo indica una classe di significati richiedente in quel tempo
un’ulteriore specificazione: si poteva, infatti, attendere un Messia di
tipo regale, davidico, sacerdotale o di Aronne, o di Giuseppe, e spesso la
specificazione avveniva con la formula «figlio di». Ricordiamo che i
Samaritani attendevano un altro tipo di Messia, con caratteristiche
profetiche sul modello di Mosè (cf. Gv 4). Cf. recentemente
R. Penna, I ritratti originali
di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria.
I. Gli inizi, Cinisello B. (MI)
1996, pp. 124-128, con l’aggiornatissima bibliografia ivi discussa;
Theissen - Metz, Der
historische Jesus, cit., par. 16, 3.2.
[31]
Parecchi esegeti sono giunti a sostenere a livello redazionale la
correttezza del titolo «Cristo» insieme alla sua insufficienza. Citiamo
qui per brevità solo quelli che hanno affrontato tale ricerca con metodo
narrativo: E.
Best, Mark.
The Gospel as Story, Edimburgh 1983, pp. 79-82, afferma che il titolo «Cristo»
non è accettato a causa delle connotazioni regali in esso supposte, a
favore della centralità del titolo «Figlio di Dio», interpretato
dall’autore soprattutto sulla linea tipologica di Isacco; F.J.
Matera, The Prologue as the Interpretative Key to Mark’s Gospel,
in «Journal for the Study of the New Testament» 34 (1988) 3-20, a
proposito del cammino progressivo di conoscenza di Gesù da parte degli
attori, ritiene che il titolo «Cristo» non sia il più importante; lo
stesso autore riprende la discussione in Id.,
Jesus in the Gospel According to Mark. The Crucified Messiah, in «Priests
& People» 4 (1990) 87-90, dove esplicita l’insufficienza della
confessione di Pietro di Mc 8,29, necessariamente da completarsi con la
storia della passione per giungere al titolo usato dalla voce celeste; P.
Müller, «Wer
ist dieser?». Jesus
im Markusevangelium. Markus
als Erzähler, Verkündiger und Lehrer,
Neukirchen - Vluyn 1995, pp. 80-92.140; U.B.
Müller, «Sohn Gottes» - ein messianischer Hoheitstitel
Jesu, in
«Zeitschrift für
die neutestamentliche Wissenschaft» 87
(1996) 1-32; L. Schenke, Die
Wundererzählungen des Markusevangeliums, Stuttgart 1974 secondo cui
ogni cristologia trionfalistica è presente nel vangelo solo per essere
successivamente negata dalla prospettiva della croce e dell’umiltà;
van Iersel, Leggere Marco,
cit., pp. 210-214 ritiene che il termine usato da Pietro in 8,29 sia
appropriato, ma altrettanto che vada corretto con i termini «Figlio
dell’uomo» e «Figlio di Dio», come lo sarà nel contesto, e che (cf.
pp. 292-293) la ripresa dei tre titoli in 14,61-62 conferma una cristologia
che suppone una connessione reciproca di essi (nessuno è sufficiente), così
in van Iersel, Mark,
cit., p. 450; già B. Standaert,
L’Évangile selon Marc. Composition
et genre littéraire, Brugge 1978
aveva ritenuto sintomatico che al
centro dell’opera fossero presenti i tre titoli (Messia, Figlio
dell’uomo e Figlio di Dio); J.D.
Kingsbury, The Christology of
Mark’s Gospel, Philadelphia PA 1989 si pone altrettanto su questa
linea. Anche lo studio a livello redazionale di Penna,
I ritratti originali, II,
cit., pp. 342-343 accetta e sostiene la validità della necessaria
connessione degli aspetti di passione e croce con quelli più trionfalistici
e gloriosi (per es. i miracoli); aggiungiamo la constatazione di T.
Smith, Petrine Controversies
in Early Christianity, Tübingen 1985, p. 165, secondo cui il titolo
confessato da Pietro sarebbe inadeguato perché successivamente corretto da
Gesù con l’annuncio della passione, rifiutata da Pietro: a noi pare che
si dovrebbe distinguere il livello diegetico da quello extradiegetico, e
riconoscere che, sebbene la confessione di Pietro non sia sufficiente, essa
non è errata. Che sia opportuno coordinare i titoli è sostenuto fra gli
altri da Kingsbury,
Christology; cit., Penna,
I ritratti originali, II,
cit., p. 334; già C.H.
Talbert, The Gospel and the
Gospels, in
«Interpretation» 33 (1979) 351-362.
[32]
Cf. Kingsbury,
Christology, cit., p. 14 e passim.
Sotto
quest’aspetto si deve concordare con Luz e Weeden, cf. sopra nota 23, p. XX.
[33]
Tutte le predizioni della passione, morte e risurrezione che ritmano il
cammino verso Gerusalemme sono sempre precedute da un’osservazione del
narratore che presenta tali scene come rivelazioni private
al gruppo ristretto dei discepoli. Oltre a 8,30, dove si ingiunge
esplicitamente il silenzio, si veda 9,30-31 («Non voleva che alcuno lo
sapesse, insegnava infatti...»);
10,32 («E prendendo di nuovo in
disparte i Dodici incominciò a insegnare loro...»);
in 9,12 addirittura i destinatari delle parole di Gesù sono solo i tre
discepoli testimoni della trasfigurazione e in 14,27-28, dove pure c’è
l’annuncio della morte e della risurrezione, è chiaro che gli uditori
intradiegetici sono solo i discepoli, coloro che hanno partecipato
all’ultima cena e che stanno recandosi con il maestro verso il Getsemani.
[34]
Diventa pertanto significativo che persino gli avversari riconoscano che
egli insegna «secondo verità la via di Dio»: cf. 12,14.
[35]
Cf. C. Mazzucco, Lettura
del vangelo di Marco, Torino 1999, pp. 162-163, che insiste sullo scacco
dell’umanità di fronte alla passione, riconoscendo nella scena del
giovanetto che fugge nudo (Mc 14,51) un’allusione ad Am 2,16, qui
indicante la fuga di tutta l’umanità di fronte alla croce. Su ciò cf.
anche G.
Perego, La
nudità necessaria. Il ruolo del giovane di Mc 14,51-52 nel racconto
marciano della passione-morte-resurrezione di Gesù,
Cinisello B. (MI) 2000.
[36]
Questo aspetto della descrizione della morte di Gesù è stato mostrato
chiaramente da
J.-N. Aletti, Mort de Jésus
et théorie du récit, in RSR 73 (1985) 147-160; cf. anche G.
Rossé, Il grido di Gesù in
croce: una panoramica esegetica e teologica, Roma 1984, pp. 124-130.
[37]
Vi sono abbondati allusioni e anche citazioni esplicite dei Salmi del giusto
sofferente nella storia della passione: esse hanno la funzione di mostrare
la modalità con cui Gesù muore e la verità della sua morte, non di
precisare la sua identità. La situazione dei racconti negli altri sinottici
è un po’ diversa. In Lc 23,47 il centurione dichiara «Questo uomo era
davvero giusto» e anche in Matteo viene a più riprese sottolineata la
giustizia di Gesù (cf. Mt 27,4.19.24).
[38]
Tra l’altro, alcuni aspetti della scena della morte richiamano l’inizio
della via, la scena del battesimo: un elemento teofanico scende dall’alto
(lo spirito e lo strappo del velo, che è così aperto come già i cieli),
Gesù è proclamato Figlio di Dio e la scena è preceduta da un riferimento
alla figura escatologica di Elia. Cf.
S. Motyer,
The Rending of the Veil. A Markan Pentecost?, in «New Testament
Studies» 33 (1987) 155-157; D.
Ulansey, The Heavenly Veil Torn: Mark’s Cosmic Inclusio, in
«The Journal of Biblical Literature» 110 (1991) 123-125.
[39]
Ciò è confermato dal fatto che la continuazione del racconto non ci mostra
alcuna «conversione» del centurione, ma solo la sua funzione di attestare,
in quanto capo del plotone di esecuzione, l’avvenuta morte di Gesù (cf.
15,44-45).
[40]
Anche Müller,
«Wer
ist dieser?», cit., p. 141, proprio sulla base di 9,9, richiama
il valore della risurrezione per qualsiasi confessione di Gesù;
analogamente Légasse,
Marc,
II, cit., p. 981.
[41]
Resta fermo il fatto che anche nel caso del lettore la confessione avviene
per rivelazione di un’istanza superiore, con le mediazioni dell’annuncio
della fede. Mentre in
Vignolo, Una finale
reticente, cit., pp. 129-189 è ben precisato il ruolo del lettore in
rapporto alla finale reticente di Marco, van
Iersel, Leggere Marco, cit.,
p. 315 richiama il fatto che il silenzio delle donne permette al narratore
di essere colui che annuncia al lettore il messaggio «diegetico» della
risurrezione! Cf.
anche D.O. Via, Irony as
Hope in Mark’s Gospel. A Reply to Werner Kelber, in «Semeia» 43
(1988) 24-27.
[42]
Queste riflessioni sono condivise anche da Légasse,
Marc,
I, cit., p. 142, il quale si esprime icasticamente dicendo che la carriera
di Messia Figlio di Dio non è completa che quando la luce si leva sulla
tomba del crocifisso.
[43]
Così, per es., A.
Culpepper, The Passion and
the Resurrection in Mark, in «Review and Expositor»
75 (1978) 596, che peraltro riconosce alla risurrezione il ruolo di
risposta divina al grido di derelizione di Gesù, ma senza dedurne le
conseguenze per la questione teologica, oppure
Best, Mark.
The
Gospel as Story,
cit., pp. 72-78.
[44]
Si trovano pagine splendide sul titolo prepaolino di Rm in Penna,
I ritratti originali, I,
cit., pp. 201-208. Anche Müller,
«Sohn Gottes», cit., pp. 14-16
giunge con metodologia storico-critica ad asserire che «Figlio di Dio» in
Marco ha lo stesso valore dell’uso in Rm,
ma nel vangelo è attribuito già al Gesù terreno, mentre la reticenza
giudaica verso il titolo viene superata dall’intervento della voce
celeste, il che rende ragione di come poté essere reputata una bestemmia la
confessione di Gesù in 14,61-62.
[45]
Da questo punto di vista la cristologia di Marco è certo altissima, poiché
attribuisce a Gesù attività e modi di essere propri di Dio. Ci pare che,
pur nella differenza espressiva, non sia inferire a quella di Paolo o di
Giovanni, il che potrebbe ancora giustificare che storicamente il simbolo
teriomorfico dell’aquila sia stato attribuito a Marco prima che a
Giovanni, cf. Irénée
de Lyon, Contre
les Hérésies. Livre III (= SC 211), Paris 1974, 11, 8: «Marco
prese avvio dallo Spirito profetico che discende dall’alto sugli uomini
dicendo “Inizio del vangelo [...] come sta scritto in Isaia profeta”,
mostrando l’immagine alata del vangelo» (nostra traduzione). Crediamo che
sia errato definire Marco il «vangelo del catecumeno» con riferimento alla
sua presunta semplicità: se però con questa espressione si indica la
ricerca dell’identità di Gesù da parte del lettore, siamo pienamente
d’accordo.
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